La
misura del Silenzio di
Davide Cuorvo, silloge edita da Manni, nel novembre 2017, riesce ad
affermare l’alternarsi di forme e di stati mutevoli, che fanno
della metamorfosi il concetto di bellezza in tutte le gamme e le
sfumature di una disperante e orgogliosa malinconia, come in un
triste violoncello del colore, à la façon di alcuni exempla del
precoce newyorkese Stanley Moss, che incontra già nell’infanzia le
arie di Rossini e la facondia di Shakespeare. Passeggero e navigatore
di un aerostato audace e filante, il giovane conzano di origini
pompeiane sorvola terreni abusati per riconcimarli, per poetaformarli
nell’operazione di disgaggio
delle pericolanti tendenze che oggi –ahinoi– vanno per la
maggiore, grazie alla personale concezione della Vita
e della Creazione,
grazie a quella creta follicolare che al suo momento fu magma e fece
l’incandescenza di autori come André Breton, César Vallejo,
Yehuda Amichai, Fernando Pessoa, Federico Garcia Lorca. Certamente,
alla base della sperimentazione linguistica, ci sono per l’appunto
le antiche lezioni di una zuffa tra senso e nonsense,
di una contrapposizione tra spinta anarchica e rimpolpato
classicismo, fra tratteggi astratti d’eco surreale e la presenza
pressurizzante, sui
fondali, di un nocchio di estraneità, sofferenza e solitudine.
Scrive, nella prefazione, Wanda Marasco: Il
silenzio immisurabile (in questo senso si potrebbe dire ossimorico il
titolo della raccolta) fa da residuato di realtà e di pensiero. È
un’ombra che si aggiunge a una nuova soglia da superare. Forse è
la sostanza del cammino, la dismisura che continua a disegnare
spettralità insieme a radici e vene…