giovedì 26 marzo 2020

Per una fenomenologia del dire poetico: in margine a Rosella Bucari “Tutte le parole per non dirlo"


Di Lucia Triolo



Muovo dal famosissimo “Canto di me stesso” di Walt Whitman: “Canto me stesso, e celebro me stesso/ E ciò che assumo voi dovete assumere”, procedo imbattendomi in “Autoritratto entro uno specchio convesso” di John Ashbery: “Lo specchio scelse di riflettere solo ciò che egli vedeva/e che bastava al suo scopo: la sua immagine/ vetrificata, imbalsamata, proiettata a un angolo di 180°” e mi ritrovo tra le mani un piccolo libro dal curioso titolo: “Tutte le parole per non dirlo”.
Mi chiedo: una provocazione? Per non dire cosa? Risposta: “Che sono così”, “Che ho paura”, “Che ho speranza”, “Che l’amore ha tante facce”. E dunque, infine

“…quello che non riuscirei mai ad ammettere, ad
esprimere direttamente.
Allora cerco le parole che sappiano girarci intorno.
Intorno alle mie paure, ai miei amori, alle mie voglie
Le parole che lascino intravedere senza raccontare” (XIII).

Ah, ecco, afferro: come da una potatura sapiente rifiorisce più vivo e più fecondo il desiderio di raccontarsi!

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