mercoledì 30 novembre 2016

L'estro poetico di Angelo Maria Ripellino




Angelo Maria Ripellino
Di Leonardo Tonini

Tre elementi si leggono nelle poesie di Angelo Maria Ripellino, tre elementi autobiografici, che si fondono insieme con una verve chagalliana di descrizione surreale e fiabesca della storia e del reale: la sofferta militanza comunista, la vasta e profonda cultura e la salute precaria. A questo si può aggiungere una onestà di fondo, non scontata nei letterati spesso vittime del loro stesso personaggio, che gli fa perdonare qualche ingenuità sentimentale. Famosa è la chiusa di Praga magica, scritto dopo i carri armati:

martedì 8 novembre 2016

Breve riflessione su poesia e canzone

Roberto Vecchioni 
Di Giuseppe Cerbino

In occasione di una intervista televisiva, il cantautore Roberto Vecchioni ebbe a dire che la poesia di oggi è prevalentemente autoreferenziale, criptica e di conseguenza inaccessibile al grande pubblico. Secondo Vecchioni, intervenendo sulla polemica circa l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, la parola non è solo scrittura ma mito che si è diffuso con la voce. Questo è vero ma per quanto tale affermazione non possa essere contestabile, bisogna tener conto altresì che non è scritto da nessuna parte che il poeta debba essere, per così dire, “popolare”. Io sostengo da sempre che il tumore della poesia è la pretesa ad essere letta. Ed è una pretesa tanto ambiziosa quanto pericolosa per la poesia stessa. E' una situazione limite che testimonia il fascino e il paradosso di questa forma espressiva tanto esaltata quanto commiserata come il sintomo di chi non sa scrivere. Basti leggere interventi come quelli di Alfonso Berardinelli per avere conoscenza dell'opinione della critica nei confronti della poesia contemporanea. Il punto è che se non si sa più scrivere è perché alla scrittura, alla letteratura in generale non si riesce più a chiedere nulla; non si riesce a chiedere che valore deve essere invocato per uscire dal pantano in cui ormai ci troviamo. La poesia, soprattutto quella dell'ultimo secolo, per non parlare di quella contemporanea, crea il senso del pantano, ci e si aiuta attraverso la parola a navigarci, a intravvedere un sacro anche nella melma.

lunedì 31 ottobre 2016

Lorena Turri e la "metrica" del dolore

Lorena Turri
Di Giuseppe Cerbino

Solo nello spasmo del parto comprendiamo la tenuta del mondo: la sua vicenda di dolore e di esaltazione per la vita. Nel femminile è possibile riconoscere queste dinamiche; ecco perché, da questo punto di vista c'è molta sapienza in tanta poesia scritta da donne; il che non vuol dire che le donne sappiano di più ma vuol dire che il dolore delle donne ripete simbolicamente il mancare e il sorgere in questo strano mondo in cui ci troviamo a essere.

Nella poesia di Lorena Turri (Castelnuovo di Carfagnana - 1958) la “sapienza” è una costola strappata all'Adamo che non sa dire il suo dolore ma cerca il motivo di un vuoto. Si diventa sapienti solo calibrando il dolore di un “parto” già inscritto in una metafora soffocante. Tristezza è questa stanza,/svuotata di speranza/dove parola muta/muta in parola vuota, scrive la Turri in alcuni suoi versi.

martedì 4 ottobre 2016

Tommaso Landolfi e la poesia

Tommaso Landolfi
Di Leonardo Tonini

Considerato uno dei più importanti autori del novecento, Tommaso Landolfi (1908 - 1979) pubblicò a sorpresa, nel 1972, una corposa raccolta poetica, Viola di Morte, a cui fece seguito, nel 1977, Il tradimento[1]. All’uscita del primo volume, lo scrittore ha 64 anni e una prolifica carriera di romanziere e scrittore di racconti, alle spalle. È inoltre saggista e traduttore dal russo, gode della stima della critica e la sua opera è presente in antologie e su riviste. È in quegli anni più citato che letto, non ha molti lettori, ma oggi, la recente, e ancora in corso, edizione di tutte le opere per la casa editrice Adelphi raccoglie un discreto consenso di pubblico. Conosciuto è il caso di un racconto scritto in una strana lingua, incomprensibile, inventata a detta dei critici e poi svelatasi come costituita di parole sì aduse, ma tutte italianissime, saccheggiate da un vecchio dizionario[2].

venerdì 30 settembre 2016

“SOPRA UN PONTE DI NULLA”: LUCE E ASSENZA NELLA POESIA DI ANNA MARIA ORTESE

Anna Maria Ortese negli ultimi anni della sua vita
Di Carla Cenci

[SECONDA  PARTE -  Leggi la prima parte]

Che per la Ortese la poesia precedesse spesso la scrit­tura in prosa indica allora quanto la minore ricercatezza formale del verso e la sua chiara immediatezza fossero il segno di una preoccupazione preminentemente morale, nell'ottica di un impegno radicale con la vita umana. La prosa avrebbe poi intrapreso la strada che le compete, con un prodotto dal valore artistico più articolato, veico­lante un intreccio complesso dei contenuti, in cui colpi­sce, all'interno della prediletta dialettica realtà-irrealtà, la costante ossimorica delle situazioni:
«Miriadi sono le cose incompiute [...]. Vi è una verità di cose incompiute, degradate — o Umanità, o Realtà, o triste Bellezza! — dove più o meno tutto confluisce».14 Questo ne Il cappello piumato. Ma basti per tutto la sintesi descrittiva del Conte D'Orgaz, maestro di 'espressività' della ragazza Damasa: «Tutto, in questo giovane, era antica assoluta perfezione, e un interiore silenzio, e una dolcezza nata da cose inesorabili. Egli era come la morte quando giunge tra i fiori».15 L'ossimoro impronta dinamicamente di sé tutti i particolari del reale, l'essere nella sua essenza, e la Ortese ne fa il cardine strutturale dell'opera letteraria, spesso fatta di ritorni che sono in realtà lontananze e di svelamenti che sono invece nuovi sigilli del mistero, manifestando in tal modo una precisa intuizione metafisica.

lunedì 26 settembre 2016

“SOPRA UN PONTE DI NULLA”: LUCE E ASSENZA NELLA POESIA DI ANNA MARIA ORTESE

Anna Maria Ortese 
Di Carla Cenci

[PRIMA PARTE]

«Deve sempre ritornare il mattino? Mai non finirà la
violenza di ciò che è terrestre? [...] Misurato fu alla luce il suo tempo; ma senza tempo e senza spazio è il dominio della notte».1
L'inno di Novalis alla notte, alla vita senza confini che il giorno inutilmente spinge nei recinti dell'apollineo, esprime pure senza scarti il valore simbolico che la cifra notturna progressivamente assume nell'opera poetica di Anna Maria Ortese, spesso analogicamente accompagnata dalle altre assai connotate figure della luna e del mare. «E ovunque spinga / lo sguardo, luce [...]. Ma non basta / alla mia mente, ché la luce è indizio / di vita, lotta e decadenza. E l'urto / sento di folle, e premono sul cuore / tutti i verdi pianeti, e sento il forte respiro di quei mari [...] / Limite a questa vita, o Notte, o puro / silenzio! Cuore / [...]  Limite, senza termine! Profonda, / profondissima culla! Tu che generi, Notte, quest'alba!»2
Il testo è rappresentativo della tensione romantica che attraversa tutta la produzione in versi della Ortese, dove lo stile è spesso prepotentemente effusivo, mirato all'espansione del sentimento e del patetico, in alcuni casi iperbolicamente visionario. Anche la 'verticalizzazione' dei contenuti, protesi verso le due opposte direzioni dell'alto e del basso, dell'aspirazione trascendente e dello scavo nel profondo dell'esistenza, procede verso la stessa direzione privilegiando non solo tematiche esistenziali e panico-naturalistiche, ma anche filosofiche e morali, metafisiche e religiose.

martedì 20 settembre 2016

Andrea Zanzotto e la tradizione vivificante


Andrea Zanzotto
Di Leonardo Tonini

Andrea Zanzotto (1921-2011), nell’ipersonetto, punto centrale e cardine del suo Il galateo in bosco, del 1968, tenta l'esperimento decisamente ardito di vedere quanto sia possibile adattare nel mondo contemporaneo la classicità e quanto questa sia ancora soprattutto fonte di significato e possibile chiave di lettura del presente.
Prende quindi la forma più adusa delle letteratura italiana (ossia il sonetto) e congegna, proprio all’interno del suo libro più sperimentale, un capolavoro di rimandi interni alla stessa costruzione dell’ipersonetto e esterni a tutta la tradizione della poesia italiana, dalle origini al contemporaneo. L’apparente difficoltà di lettura è data appunto da questa ipersignificazione, che porta la densità di scrittura a un livello che è esso stesso metafora della scrittura. Ma andiamo con ordine.

domenica 18 settembre 2016

La metrica: a cosa serve e perché

Giovanni Pascoli e Gabriele D'annunzio: due grandi riformatori della metrica
Di Lorena Turri 

Un noto manuale di metrica inizia con queste parole:

"A chi non abbia interesse per la poesia la metrica non serve a niente, ed altrettanto inutile è per lui questo libro."(Pietro G. Beltrami - Gli strumenti della poesia - Il Mulino 2012)

Ciò significa che la conoscenza della metrica è necessaria, in primis, per la comprensione di un testo poetico. A maggior ragione, chi si approccia alla scrittura poetica dovrebbe almeno possedere una minima base strumentale, perché la metrica altro non è che uno degli strumenti della composizione poetica, seppure dal punto di vista linguistico non comunichi alcun significato. Poiché una poesia non si compone solamente di "ciò che si dice", ma anche di "come lo si dice", la forma è di fondamentale importanza. Questo non significa dover necessariamente adottare una scrittura metrica, ma il possesso conoscitivo di questo strumento permetterà di scrivere con maggior cognizione e compiutezza formale anche in una versificazione libera.

giovedì 15 settembre 2016

Sandro Penna e il desiderio

Sandro Penna insieme a Pier Paolo Pasolini
Di Giuseppe Cerbino

Non è la costruzione il lieto dono
della natura. Un fiore chiama l'altro".

Sandro Penna

Questo splendido distico, che probabilmente risale alla metà degli anni trenta, fu scritto da Sandro Penna (1906 - 1977)  quando venne lasciato dal suo ragazzo Ernesto che volse la sua attenzione verso altri progetti trascurando l'amore per il poeta.

Tuttavia, a prescindere dalla circostanza che l'ha dettata, la lirica rimane un esempio grandioso dell'estetica e dello stile del poeta perugino.
Il primo verso rifiuta di considerare i progetti come un dono felice della natura umana; è come se essi fossero qualcosa di estraneo che, agli occhi del Nostro, più che impreziosire la vita la mortificano.


Penna ricava questo concetto dalla poesia di Saba secondo il quale la vita vera va preservata dalla corruzione della società e dalle ambizioni personali. Già nel Vangelo troviamo scritto che i gigli dei campi e gli uccelli "non lavorano, non tessono", non cuciono, essi sono espressione pura della vita.

mercoledì 14 settembre 2016

Michele Caccamo e la forza della letteratura recensione a "La profezia delle triglie"

Michele Caccamo
Di Giuseppe Cerbino

Dice il filosofo Paul Ricoeur che il lettore ridefinisce il senso di un libro rispetto all'intenzione di chi scrive. Ogni lettura ci chiama sempre dai nostri vissuti, il che significa che ci chiama dalle nostre conoscenze, dalla nostra cultura, dalla nostra sensibilità per arrichire il senso di ciò che andiamo a leggere. Esporrò  alcune suggestioni emerse dalla lettura di “La profezia delle triglie”(David and Mathaus editore) senza per questo pretendere di esaurirne il senso, sapendo anzi che questo romanzo rimane aperto nell'accezione di Roland Barthes e Umberto Eco.

 C'è  una parola chiave che  regge tutta la narrazione del romanzo di Michele Caccamo e  Luisella Pescatori, una parola  che non è presente  nel romanzo stesso ma è sussurrata nel respiro orientale e che noi occidentali  abbiamo  bisogno di evocare per comprendere non solo l'ossatura di  certi lavori letterari come questo ma anche il  “sottobosco” semantico che fa da collante imprescindibile a questi due grandi orizzonti.   La parola è “dignità”, una parola che riconosce un valore intrinseco in ogni persona e  per  tale motivo, nel suo antico e dimenticato significato  non ha bisogno di essere dimostrato e verificato poiché proviene dall'essenza stessa della cosa. Qualcosa che è intrinseco è evidente, incontrovertibile e in  tal senso non è un caso che il corrispettivo greco della parola latina dignitas è axios da cui deriva il termine assioma: come si sa l'assiona è una affermazione che sta alla base di ogni dimostrazione ma essa non può  essere dimostrata  a sua volta. Ecco! L'uomo come tale è axios, emissario di se stesso; del suo stesso valore che mostra ma che non ha bisogno di di-mostrare.

martedì 13 settembre 2016

Giorgio Caproni e le carte

Giorgio Caproni  (foto di Dino Ignani)
Di Giuseppe Cerbino

LE CARTE


Imbrogliare le carte,

far perdere la partita,

è il compito del poeta?

lo scopo della sua vita?



Giorgio Caproni



Da "L'opera in versi"

***

Questi versi di Giorgio Caproni evocano una crisi della poesia intesa come guida che apre certezze e chiama a sé gli dei del senso, hölderlianamente parlando.



Il poeta livornese suggerisce, con una domanda che vorrebbe quasi imporsi come retorica, una concezione molto diversa da quella classica e romantica del poeta inteso come messaggero degli dei (una disintegrazione, in verità, già presente nel primo Montale e in molti poeti del primo novecento, ma che in Caproni assume una dimensione più drammatica e vissuta senza lo sguardo intellettuale e filosofico di Montale) .

Per il nostro livornese, il poeta è un imbroglione, un contrabbandiere di parole che passano sottobanco sviando i controlli di una metaforica dogana. 

Il poeta è colui che inganna che fa perdere qualsiasi punto d'appoggio, qualsiasi certezza.
Non più colui che, secondo una notissima espressione di Montale scopre "il punto morto del mondo, l'anello che non tiene"; infatti ricordando che menzogna deriva da “mente” e quindi da capacità creativa, possiamo affermare che è proprio qui che si realizza lo scarto rispetto a Montale: questo impegno all'inganno, questo votarsi alla menzogna produce un movimento dinamico che testimonia l'insofferenza ad accettare delle verità qualsiasi perché solo la menzogna, la creatività, rende l'uomo protagonista della propria vita (perché è egli stesso a determinarla con l’estro) e non bisognoso di conoscenze precise sul mondo.

lunedì 12 settembre 2016

Domenico Pisana: il Naufragio pieno di speranza.

Di Giuseppe Cerbino

Il rigore... morale, stilistico, letterario e persino esistenziale è il solo rimedio contro ogni supponenza che non meriti dignità artistica. E' il caso dell'opera “Tra naufragio e speranza” del poeta Domenico Pisana (Modica 1958). La precisione e l'esattezza del dettato non lasciano spazio a nessuna velleità personalistica, nessuna presunzione che sia al di fuori della verità del verso. Nel solco di una tradizione forse a volte troppo battuta, Pisana rivendica con forza un suo spazio lirico in cui si impegna, attraverso la poesia, a lottare contro ogni bruttura, fino allo spasimo... oltre il punto in cui il senso comune suggerirebbe una resa. E invece no! Questo poeta non si arrende e chiede al suo lettore di fare altrettanto. 

domenica 11 settembre 2016

Andrea Casoli: la quotidianità del sublime

Di Giuseppe Cerbino

Andrea Casoli (Reggio Emilia 1972) ci libera dalla perversione secondo la quale la buona poesia debba essere a tutti i costi ricercata, colta, ampollosa, accessibile a pochi. Invece egli ci riconcilia finalmente, come pochi sanno fare, con il linguaggio quotidiano della vita di tutti, come direbbe Saba, della vita del padre che porta a scuola i figli, che prepara la colazione, che litiga con la moglie, che affronta le beghe con il capoufficio... e pur tuttavia quella di Casoli non è una poesia con un linguaggio dimesso o “scollacciato” da new age. La capacità che si può e si deve riconoscere a questo poeta è quella di far vedere nel linguaggio comune una insperata attesa di felicità. Ecco “il compiersi del miracolo” in maniera rovesciata rispetto a un montalismo incipiente e abusato.

sabato 10 settembre 2016

Deborah Žerovnik: la parola estranea che salva

Di Giuseppe Cerbino

Ciò che mi sorprende in Deborah Žerovnik (Pola, 1968) è la sua origine serbocroata che la rende estranea alla lingua italiana ma facendo di questa estraneità non un ostacolo ma una risorsa attraverso la quale la Žerovnik si muove come un bambino in una lallazione primordiale attraverso cui la poetessa assume il peso di tutte le risposte che la “grammatica” è in grado di offrire alla sua domanda di drammatiche inquietudini. Da questa esplorazione rabdomantica la Žerovnik scopre sempre nuove combinazioni di senso che rendono possibile l'apertura di varchi nella sua vita di sofferenze. Una vita che la schiaccia e che tuttavia non la sconfigge mai. Il lettore vede nel sangue versato sempre una occasione di gratifica e di nobiltà di una esistenza, la cui esigenza sacrale non può essere mai rifiutata. C'è un ordine, un codice, in questa poesia in cui il dramma e il dolore sono delle necessità immolate al verso.