giovedì 26 marzo 2020

Per una fenomenologia del dire poetico: in margine a Rosella Bucari “Tutte le parole per non dirlo"


Di Lucia Triolo



Muovo dal famosissimo “Canto di me stesso” di Walt Whitman: “Canto me stesso, e celebro me stesso/ E ciò che assumo voi dovete assumere”, procedo imbattendomi in “Autoritratto entro uno specchio convesso” di John Ashbery: “Lo specchio scelse di riflettere solo ciò che egli vedeva/e che bastava al suo scopo: la sua immagine/ vetrificata, imbalsamata, proiettata a un angolo di 180°” e mi ritrovo tra le mani un piccolo libro dal curioso titolo: “Tutte le parole per non dirlo”.
Mi chiedo: una provocazione? Per non dire cosa? Risposta: “Che sono così”, “Che ho paura”, “Che ho speranza”, “Che l’amore ha tante facce”. E dunque, infine

“…quello che non riuscirei mai ad ammettere, ad
esprimere direttamente.
Allora cerco le parole che sappiano girarci intorno.
Intorno alle mie paure, ai miei amori, alle mie voglie
Le parole che lascino intravedere senza raccontare” (XIII).

Ah, ecco, afferro: come da una potatura sapiente rifiorisce più vivo e più fecondo il desiderio di raccontarsi!

.



Così, con queste notazioni, mi piace raccontare a mia volta il mio approdo alla lettura di “Tutte le parole per non dirlo”, la recentissima silloge di Rosella Bucari (Lebeg edizioni, Dicembre 2019). Come sappiamo la poesia racconta sempre l’io poetico, dice l’”altro” di chi scrive anche quando questo “altro” si rivolge alla storia, al mondo, alla natura etc… Non per nulla spesso si scrive per sapere di sé, per scoprirsi e raccontarsi anzitutto a se stessi. Direi: si scrive e si va alla ricerca di una nudità, della propria nudità. E questo a mio avviso, è vero sempre: si è nudi, se visti attraverso la poesia, anche dentro il paesaggio poetico del “poeta mentitore”, di pessoiana memoria: per paradossale che possa essere, in poesia anche il mentitore può essere visto nudo!
Rosella Bucari lo sa benissimo ma sa avvalersi di questo passaggio in un modo tutto suo per disinnescare con avvedutezza, in quel raccontare di sé proprio del poeta alla cui tentazione non si sottrae, la trappola del binomio verità/menzogna. Lo fa senza bisogno né di celebrarsi elegiacamente, né di deformarsi guardando la propria immagine riflessa in uno specchio convesso, né tantomeno di negarsi. Nei suoi versi la parola dice le cose per come stanno, non nasconde nulla e tuttavia nasconde dicendo, vela rivelando; perché là, nell'effetto di chiaroscuro che comunque miracolosamente ne scaturisce, è al lavoro l'io poetico: semplicemente, avverte l’autrice, “in tutte le parole per non dirlo, io divento il mimo della mia vita” (XIII)
Siamo, a mio avviso, dinnanzi ad una mossa di intelligenza poetica di rara efficacia: la ineliminabile distanza che si produce e s' impone tra il mimo e ciò che viene ri-prodotto mette in moto una sorta di, fenomenologia critica del dire poetico, dove la vita più irripetibilmente propria a chi per l'appunto la finge, ha titolo a inoltrarsi senza reticenze nella narrazione di sé. Non per nulla "io sono così " è l'urlo provocatorio e felicemente autoironico da cui prendono le mosse tutte le parole per non dire... questo stesso. La quadripartizione della raccolta, cui prima alludevo, parla chiaro: “Che sono così”, “Che ho paura”, “Che ho speranza”, “Che l’amore ha tante facce”. Come si vede nell’organigramma del testo, mettere in sequenza “tutte le parole per non dirlo” non significa nascondersi né soprattutto rinunciare a qualche aspetto della narrazione del sé, significa piuttosto chiamare in causa una sorta, direi, di oggettività riflessiva nel senso di quel tratto felicemente ironico cui prima mi riferivo. Ce ne avvediamo fin dal primo quadro: “Che sono così”. E subito “Ma sono così come?” (p.11). Segue una doppia caratterizzazione

so di essere abbastanza
pur sapendomi sbagliata nuovamente
quando mi perdo nei meandri del frattempo
per stupirmi tra l’ovvio e il contrattempo” (p.9).

E poi

ho occhi che parlano
da sempre
prima della voce o senza,
anche quando vorrei fossero muti” (p.13).

Seguire il mimo in azione sul sono così significa appunto muoversi dentro una sorta di doppio registro. Per un verso il piano "metodologico" e trasversale che è poi quello di un magistrale non prendersi poi troppo sul serio (qui la sottile ironia) fra contrattempo e frattempo, uno stare sulla soglia di se stessi (l’arte magica di “restare nei pressi” -p.5-), pronti ad afferrarsi se si sta per cadere, accettando di vibrare come sospesi senza dare l’impressione di esserlo: “mi lascio e mi riprendo” (p.11). Per altro verso il piano dell’immagine fisica, ferma, fotografica, quasi un'istantanea reale: quello che ci fa imbattere negli occhi e nello sguardo come chiavi di cui il mimo deve impossessarsi per la sua rappresentazione. Ed è appunto, in questo momento per così dire fisico che avviene l’incontro con la poesia:

Ci si incontrò per caso
nella iniziale diffidenza
scrutandoci di sguincio
In quello spazio immenso” (p.19).

Che sia fisico il piano di incontro è importante perché ci traghetta al secondo momento fenomenologico della partizione. Il “Che ho paura” è breve ma intenso. Qui la parola è di tutti. Mentre li passa in rassegna, sentiamo subito addosso a noi i timori che attraversano l’anima perché sono quelli di ciascuno, quasi che Rosella Bucari ci prestasse il suo mimo e ad essere mimati in lei, fossimo noi stessi; a prendere la parola sono adesso: il vuoto (“quel senso di vuoto” p. 25), il dubbio (“E del dubbio tengo per me/ la metà che più mi fa contenta” p.26), la morte (“Quando la morte mi verrà a cercare/farò finta di niente” p.27) e infine la paura, il desiderio di non lasciarsene inghiottire (“voglio salvarmi dalla paura/…/e inevitabilmente torno a stringermi addosso/alla solita stronza illusione di salvezza” p.29).
In un crescendo di intensità emotiva, alla paura segue “Che ho speranza”. Si lascia cogliere questa speranza quasi sul nascere, come un presagio di bisbigli poetici:

“…..
Può averlo scordato il mondo incapace,
indaffarato com’è a costruire incertezza;
ma sottovoce tornerà primavera
Mi chiudo a riccio dentro questo pensiero.
scalda, lenisce
e non importa abbia pure ragione

A metà strada troviamoci ancora,
sempre lì,
in quel solito posto, tra capoverso
e l’ultima rima di una poesia d’amore felice” (p.34).

E poi nella sua urgenza più peculiare, originale e bella: nella speranza è il domani a consegnarci l’oggi. Il vincolo temporale è capovolto!

Domani voglio il suono delle parole non dette,
Non servono alle labbra; domani
camminerò scalza di spalle agli indugi,
avrò addosso il sapore più bello che so
Sarà domani come un bacio sussurrato
a lasciarmi oggi tra le mani” (p.38).

E così quando il parlare modula un’altra tonalità del non dire, nel IV ed ultimo quadro di quella sorta di percorso del dire poetico di cui provo a seguire lo sviluppo, Rosella Bucari ci svela “Che l’amore ha tante forme”.
Qui l'esperimento espressivo si fa altro e il gioco si trasforma; l’autrice, in certo senso ci saluta e ci lascia: il mimo ora recita solo lei, la serenità dello sguardo su se stessa che non è di tutti (come non pensare per contrasto al travaglio intimo e insoluto di un’Amelia Rosselli, per es., e alla sua battaglia tragica e perduta?). C'è una obiettività iconoclasta ( si veda “mi dichiaro a oltranza/presunta colpevole…ma di quello che sono non mi pento” -p.21- o ancora con una espressione briccona: “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” -p.45-) che è solo sua e, mimandosi, non fa nessun tentativo di agganciarci a sé: per ognuno infatti le forme dell’amore sono diverse. Ma da lei, ben al di là delle stagioni (la primavera, l’autunno) e della gioia che trasmette la natura o la poesia, impariamo soprattutto a scoprire come forma d’amore “straordinaria” la profondità di ciò che è in superficie, a godere, ad amare la normalità: “fino al confine del quasi tutto è possibile” (p.39):

Alla maniera del giorno
quando s’allunga a svegliare la notte,
di un fiore che sboccia di nuovo
nella stessa forma perfetta

come l’ombra sbadiglia alla luce,
il sapore salato del mare o la paura del vuoto
di ogni volta all’inizio.
naturale

Così mi accadi
come straordinaria cosa normale” (p. 48).

E forse per questa sorta di normalità straordinaria, invocata e vissuta, anche il linguaggio di “Tutte le parole per non dirlo” è nitido, piano, seducente, strutturato. Un verseggiare che sa sottrarsi alle tentazioni di certo artificioso ermetismo oggi in agguato e conquistare toni di un accattivante, sottile, mai facile lirismo. Cosa chiede Rosella Bucari, con urgenza a volte prorompente alle parole e cosa fa alle parole, con la complicità del gioco di chiaroscuro che scaturisce dal lavoro segreto dell'io poetico? Le provoca a darle ciò che esse non possono e non debbono: se stessa. In questa continua torsione (difficile ma mai infelice o, peggio, disperata) tra l’urgenza della richiesta e l’impossibilità della sua soddisfazione, si trova, a mio avviso, il nucleo della scrittura di “Tutte le parole per non dirlo”. E alla fine dell'azione scenica, all'estinguersi del chiaroscuro, la sensazione che resta è quella stupendamente normale di essersi ritrovati in un colloquio intimo e personale con un’ amica di sempre.

Basta con le parole,
Qui il libro si chiude.
L’ultimo accenda la luce” (57).


Nessun commento:

Posta un commento