Di Lucia Triolo
Muovo
dal famosissimo “Canto
di me stesso” di
Walt Whitman: “Canto
me stesso, e celebro me stesso/ E ciò che assumo voi dovete
assumere”,
procedo imbattendomi in “Autoritratto
entro uno specchio convesso”
di John Ashbery: “Lo
specchio scelse di riflettere solo ciò che egli vedeva/e che bastava
al suo scopo: la sua immagine/ vetrificata, imbalsamata, proiettata a
un angolo di 180°”
e mi ritrovo tra le mani un piccolo libro dal curioso titolo: “Tutte
le parole per non dirlo”.
Mi
chiedo: una provocazione? Per non
dire cosa?
Risposta: “Che
sono così”, “Che
ho paura”, “Che ho speranza”, “Che l’amore ha tante facce”.
E dunque, infine
“…quello
che non riuscirei mai ad ammettere, ad
esprimere
direttamente.
Allora
cerco le parole che sappiano girarci intorno.
Intorno
alle mie paure, ai miei amori, alle mie voglie
Le
parole che lascino intravedere senza raccontare” (XIII).
Ah,
ecco, afferro: come da una potatura sapiente rifiorisce più vivo e
più fecondo il desiderio di raccontarsi!
….
Così,
con queste notazioni, mi piace raccontare a mia volta
il mio
approdo alla lettura di “Tutte
le parole per non dirlo”,
la recentissima silloge di Rosella Bucari (Lebeg edizioni, Dicembre
2019). Come sappiamo la poesia racconta sempre l’io poetico, dice
l’”altro” di chi scrive anche quando questo “altro” si
rivolge alla storia, al mondo, alla natura etc… Non per nulla
spesso si scrive per sapere di sé, per scoprirsi e raccontarsi
anzitutto a se stessi. Direi: si scrive e si va alla ricerca di una
nudità, della propria nudità. E questo a mio avviso, è vero
sempre: si è nudi, se visti attraverso la poesia, anche dentro il
paesaggio poetico del “poeta mentitore”, di pessoiana
memoria: per
paradossale che possa essere, in poesia anche il mentitore può
essere visto nudo!
Rosella
Bucari lo sa benissimo ma sa avvalersi di questo passaggio in un modo
tutto suo per disinnescare con avvedutezza, in quel raccontare di sé
proprio del poeta alla cui tentazione non si sottrae, la trappola del
binomio verità/menzogna. Lo fa senza bisogno né di celebrarsi
elegiacamente, né di deformarsi guardando la propria immagine
riflessa in uno specchio convesso, né tantomeno di negarsi. Nei suoi
versi la parola dice le cose per come stanno, non nasconde nulla e
tuttavia nasconde dicendo, vela rivelando; perché là, nell'effetto
di chiaroscuro che comunque miracolosamente ne scaturisce, è al
lavoro l'io poetico: semplicemente, avverte l’autrice, “in
tutte le parole per non dirlo, io divento il mimo della mia vita”
(XIII)
Siamo,
a mio avviso, dinnanzi ad una mossa
di intelligenza
poetica di rara efficacia: la ineliminabile distanza che si produce e
s' impone tra il mimo e ciò che viene ri-prodotto
mette in moto una
sorta di, fenomenologia critica del dire poetico, dove la vita più
irripetibilmente propria
a chi per l'appunto la finge,
ha titolo a
inoltrarsi senza reticenze nella narrazione di sé. Non per nulla "io
sono così " è
l'urlo provocatorio e felicemente autoironico da cui prendono le
mosse tutte le parole per non dire... questo
stesso. La
quadripartizione della raccolta, cui prima alludevo, parla chiaro:
“Che sono così”,
“Che ho paura”,
“Che ho speranza”,
“Che l’amore ha
tante facce”.
Come si vede nell’organigramma del testo, mettere in sequenza
“tutte le parole
per non dirlo”
non significa nascondersi né soprattutto rinunciare a qualche
aspetto della narrazione del sé, significa piuttosto chiamare in
causa una sorta, direi, di oggettività riflessiva nel senso di quel
tratto felicemente ironico cui prima mi riferivo. Ce ne avvediamo fin
dal primo quadro: “Che
sono così”. E
subito “Ma sono
così come?”
(p.11). Segue una doppia caratterizzazione
“so
di essere abbastanza
pur
sapendomi sbagliata nuovamente
quando
mi perdo nei meandri del frattempo
per
stupirmi tra l’ovvio e il contrattempo”
(p.9).
E
poi
“ho
occhi che parlano
da
sempre
prima
della voce o senza,
anche
quando vorrei fossero muti”
(p.13).
Seguire
il mimo in azione sul sono
così significa
appunto muoversi dentro una sorta di doppio registro. Per un verso il
piano "metodologico" e trasversale che è poi quello di un
magistrale non prendersi poi troppo sul serio (qui la sottile ironia)
fra contrattempo e
frattempo,
uno stare sulla soglia di se stessi (l’arte magica di “restare
nei pressi”
-p.5-), pronti ad afferrarsi se si sta per cadere, accettando di
vibrare come sospesi senza dare l’impressione di esserlo: “mi
lascio e mi riprendo”
(p.11). Per altro verso il piano dell’immagine fisica, ferma,
fotografica, quasi un'istantanea reale: quello che ci fa imbattere
negli occhi e nello sguardo come chiavi di cui il mimo deve
impossessarsi per la sua rappresentazione. Ed è appunto, in questo
momento per così dire fisico che avviene l’incontro con la poesia:
“Ci
si incontrò per caso
nella
iniziale diffidenza
scrutandoci
di sguincio
In
quello spazio immenso”
(p.19).
Che
sia fisico il piano di incontro è importante perché ci traghetta al
secondo momento fenomenologico della partizione. Il “Che
ho paura” è
breve ma intenso. Qui la parola è di tutti. Mentre li passa in
rassegna, sentiamo subito addosso a noi i timori che attraversano
l’anima perché sono quelli di ciascuno, quasi che Rosella Bucari
ci prestasse il suo mimo e ad essere mimati in lei, fossimo noi
stessi; a prendere la parola sono adesso: il vuoto (“quel
senso di vuoto”
p. 25), il dubbio (“E
del dubbio tengo per me/ la metà che più mi fa contenta”
p.26), la morte (“Quando
la morte mi verrà a cercare/farò finta di niente”
p.27) e infine la paura, il desiderio di non lasciarsene inghiottire
(“voglio salvarmi
dalla paura/…/e inevitabilmente torno a stringermi addosso/alla
solita stronza illusione di salvezza”
p.29).
In
un crescendo di intensità emotiva, alla paura segue “Che
ho speranza”. Si
lascia cogliere questa speranza quasi sul nascere, come un presagio
di bisbigli poetici:
“…..
Può
averlo scordato il mondo incapace,
indaffarato
com’è a costruire incertezza;
ma
sottovoce tornerà primavera
…
Mi
chiudo a riccio dentro questo pensiero.
scalda,
lenisce
e
non importa abbia pure ragione
A
metà strada troviamoci ancora,
sempre
lì,
in
quel solito posto, tra capoverso
e
l’ultima rima di una poesia d’amore felice”
(p.34).
E
poi nella sua urgenza più peculiare, originale e bella: nella
speranza è il domani a consegnarci l’oggi. Il vincolo temporale è
capovolto!
“Domani
voglio il suono delle parole non dette,
Non
servono alle labbra; domani
camminerò
scalza di spalle agli indugi,
avrò
addosso il sapore più bello che so
…
Sarà
domani come un bacio sussurrato
a
lasciarmi oggi tra le mani” (p.38).
E
così quando il parlare modula un’altra tonalità del non dire, nel
IV ed ultimo quadro di quella sorta di percorso
del dire poetico di
cui provo a seguire lo sviluppo, Rosella Bucari ci svela “Che
l’amore ha tante forme”.
Qui
l'esperimento espressivo si fa altro e il gioco si trasforma;
l’autrice, in certo senso ci saluta e ci lascia: il mimo ora recita
solo lei, la serenità dello sguardo su se stessa che non è di tutti
(come non pensare per contrasto al travaglio intimo e insoluto di
un’Amelia Rosselli, per es., e alla sua battaglia tragica e
perduta?). C'è una obiettività iconoclasta ( si veda “mi
dichiaro a oltranza/presunta colpevole…ma di quello che sono non mi
pento” -p.21- o
ancora con una espressione briccona: “mi
avvalgo della facoltà di non rispondere”
-p.45-) che è solo sua e, mimandosi, non fa nessun tentativo di
agganciarci a sé: per ognuno infatti le forme dell’amore sono
diverse. Ma da lei, ben al di là delle stagioni (la primavera,
l’autunno) e della gioia che trasmette la natura o la poesia,
impariamo soprattutto a scoprire come forma d’amore “straordinaria”
la profondità di ciò che è in superficie, a godere, ad amare la
normalità: “fino
al confine del quasi tutto è possibile”
(p.39):
“Alla
maniera del giorno
quando
s’allunga a svegliare la notte,
di
un fiore che sboccia di nuovo
nella
stessa forma perfetta
come
l’ombra sbadiglia alla luce,
il
sapore salato del mare o la paura del vuoto
di
ogni volta all’inizio.
naturale
Così
mi accadi
come
straordinaria cosa normale”
(p. 48).
E
forse per questa sorta di
normalità straordinaria, invocata e vissuta, anche il linguaggio di
“Tutte le parole
per non dirlo” è
nitido, piano, seducente, strutturato. Un verseggiare che sa
sottrarsi alle tentazioni di certo artificioso ermetismo oggi in
agguato e conquistare toni di un accattivante, sottile, mai facile
lirismo. Cosa chiede Rosella Bucari, con urgenza a volte prorompente
alle parole e cosa fa alle parole, con la complicità del gioco di
chiaroscuro che scaturisce dal lavoro segreto dell'io poetico? Le
provoca a darle ciò che esse non possono e non debbono: se stessa.
In questa continua torsione (difficile ma mai infelice o, peggio,
disperata) tra l’urgenza della richiesta e l’impossibilità della
sua soddisfazione, si trova, a mio avviso, il nucleo della scrittura
di “Tutte le
parole per non dirlo”.
E alla fine dell'azione scenica, all'estinguersi del chiaroscuro, la
sensazione che resta è quella stupendamente normale di essersi
ritrovati in un colloquio intimo e personale con un’ amica di
sempre.
“Basta
con le parole,
Qui
il libro si chiude.
L’ultimo
accenda la luce”
(57).
Nessun commento:
Posta un commento