giovedì 2 maggio 2019

Versonador – Scenari della mente di Armando Saveriano

Di Federico Preziosi




Armando Saveriano
Sulla quasi trentennale esperienza poetica di Armando Saveriano ci sarebbe molto da dire a proposito delle evoluzioni, le suggestioni e anche riguardo alla ricchezza tematica dispiegata in versi dati alle stampe dapprima autonomamente e, successivamente, approdati su carta grazie ad alcune piccole case editrici. 

Lo stile attuale del poeta irpino appare piuttosto riconoscibile: i versi si presentano prevalentemente brevi, ma disciolti in lunghi monologhi privi di punteggiatura, pezzi impreziositi da una ricerca e un sentire lessicale fervido e vulcanico. Una poesia dedita al teatro, all’impressione e all’immedesimazione, che non rinuncia a un pizzico di improvvisazione e al tempo stesso strizza l’occhio alla confessional poetry. Coloro i quali nell’era di Facebook seguono Saveriano con cadenza quotidiana sono al corrente di certe espressioni poetiche. Tuttavia uno stile, anche solo per consolidarsi o crescere, ha bisogno di tappe che nel succedersi possono rivelarsi ugualmente interessanti, non solo al fine di rintracciare punti di approdo e di rottura di una determinata poetica, ma anche perché potrebbero costituire focus di interesse di per sé, autonomamente, tralasciando l’evoluzione ed il relativo giudizio.

È il caso di "Versonador - Scenari della mente", una delle opere più riuscite di Saveriano. Sebbene oggi abbiamo la possibilità di addentrarci in questa silloge da tutta un’altra prospettiva, con il senno del poi, è utile tracciare delle coordinate affinché ci si possa fare un'idea anche sul Saveriano attuale.
Data alle stampe nell’aprile 2010 per conto di Mephite, "Versonador" costituisce senz’altro un punto di svolta stilistico per il poeta irpino, il quale mette a punto un tessuto particolarmente ricco e variegato, ricolmo di notevoli aperture alari al servizio dei vari e numerosi “scenari della mente”. La scrittura è accompagnata qui da un utilizzo sapiente della punteggiatura (elemento del quale Saveriano si libererà qualche anno dopo) e da lodevoli intrecci lessico-sintattici, gli stessi che andranno a costruire in futuro l’espressione maggiormente riconoscibile del poeta avellinese. Armando Saveriano mostra una grande capacità di assimilazione e rielaborazione testuale: in queste trame l’Arcadia convive con l’avanguardia, il sentimento lirico e dannato dal gusto greco si fonde con la sfrontatezza futurista; la scomposizione dell’Io, un campo di indagine sempre aperto nelle sue liriche, si rivela terreno fertile per un’umanizzazione a 360º che oscilla tra il desiderio estremo, puro e ostinato, e la maledetta sorte che incombe minacciosa come un destino pavesiano, dunque sempre mutuato da un sentire antico ed eternizzante. 


Non è un caso che la commistione di linguaggio intellettuale e popolare (anche questa, altra faccia del poeta) scorra con forza e naturalezza laddove la forma dialettale conferisce al verso un carico viscerale e le sofisticatezze lessicali forgiano un tono drammatico, evocativo, a tratti prorompente, come a voler esternare una sapienza onnicomprensiva fatta di conoscenza acquisita e vita vissuta, di immaginazioni e sogni, di amarezze e guizzi improvvisi. Un corpus graniticamente postmoderno che interroga l’animo con multiforme intelligenza, mistero e schiettezza, in quanto Armando Saveriano si contraddistingue per un profondo e innato desiderio di voler essere ogni cosa dannata e, pertanto in poesia, al tempo stesso beatificata. Tutto è possibile con le parole, dalla confessione all'invettiva e, punteggiatura a parte, questa onnivora versatilità del verso da qui in poi resterà una costante della poetica saveriana.
ANNA DEI PAZZI POETI Scavava per me la notte madre un nido di terra attrattiva nel quale semplificarmi senza più flessioni contorcimenti stravaganti verso il disumano -o il superumano- Inventariavo tutte le parole comuni mescolate e ricombinate dalla fantasia sboccata (efferata, alle volte, efferata!) che in mezzo a voi, amici, fa il suo ingresso invadente in figura di Giannetto Malespini e riduce me ad acrobata d'inchiostrazioni, di eloquenza e riso Un saltimbanco rampante invidioso furbesco mi vien detto così, da taluni Perciò raccontavo di te, Anna ai ciottoli, alle maschere agli elefantini d'argento, di ottone -e plastica- di una collezione scriteriata regali, acquisti paccottiglia rubacchiata... ...di come t'avessi conosciuta al tavolo sporco di una caffetteria tra le malignità intellettuali i dispetti verbali e una forchettata di penne alla vodka Di come tu sbalzassi dal ricordo -cinematografico- della cave accanto a Juliette esistenzialista Anna col suo ragazzo bravo -insignificante e pigro- Anna dalla meraviglia come un balocco dall'effusione immensa: una gommapiuma E proseguivo, carezzando col dito la scimmietta alchimista di Teniers e ridendo dei piaceri del pazzo e narrando narrando narrando di come i tuoi capelli sappiano sfrigolare anche tra le dita d'un pezzente d'un poeta per sfida e per scommessa Poi la notte si pioveva in sensi di vergogna forse perché sei fianchi ed innocenza un riposo liscio come spalle scaglia di una luce più esultante (quella della sorella acerrima lì a Roma...) Pensavo che sentissero i tuoi seni brucare linfa d'albero che ride mentre cola sopra la pelle cola se oltre la corteccia il mio coltello te la cercasse, Anna nella selva Ma il mattino s'intrude (ora) -mezzo paparazzo- ha il suo rastrello per le ciocche là ultime di bigio e ciclamino un acchiappafarfalle avventa sui bioccoletti di sogno nella veglia: svilisce gli appunti sofferenti (meditazioni funamboliche su Malraux) e annacqua gli intrugli maledetti E tu Anna non hai qui più che una spenta triviale macchietta (ah, la mia mente impiastrata di mélo!) Aspetta allora che si sieda il buio Calzando scarpette da punta girerai onesta e svaporata (per i vicoli) Dài, getta pure via la borsetta (mettici semmai un applauso) scollati il maglioncino buono e quel ragazzo dimentica in un cinema tasta le pietre e cieca bussa alle locande (somiglieranno tutte a 'quel' bistrot) Ti invito al mio cabaret (ancora) spopolato Lasciati prendere le labbra lasciati prendere dai poeti pazzi (e da David d'Anversa per una sua scena d'osteria) lasciati prendere le labbra che sono un sorso di vino Intreccerai così le tue domande al mio farneticare baldanzoso (un vero imbroglio) su fino ai legni della soffitta e sotto il palato scorrerà la sensazione affannata che Dio sia l'apparenza la carità il servitore bleso della debolezza e alloggi lì nello scherno di una testa di porco con spezie lardellata o che dalle dita mie che frusciano tra i Gide e tra i Vidal sgualciti -e praticati- sogghigni un disgusto inconfessato! (Adesso io mi allungo sopra il tavolo e ci muoio)

1 commento:

  1. Una disamina intelligente e perspicace di uno dei poeti più interessanti di questo tempo.

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