sabato 19 ottobre 2019

Recensione, Variazione Madre di Federico Preziosi


                                                                                                                          
   
                                                                                                                                 Di Gerardo Iandoli


Risultati immagini per VARIAZIONE MADRECon Variazione Madre (Roma, Editore Controluna, 2019), si sarebbe tentati di partire dal dato che subito colpisce il lettore: questa raccolta di liriche al femminile sono state scritte da un uomo. Eppure, prima di analizzare l’interazione tra testo e paratesto, bisogna studiare le poesie e preoccuparsi soltanto della voce che i testi stessi contribuiscono a creare, senza far riferimento a dati extratestuali.
Spesso, il soggetto femminile che parla rivendica il suo ruolo di madre: “Non pensavo poter essere madre” (p. 31), “Essere/una madre e una donna/una sola cosa” (p. 32), “io madre e amante” (p. 55). Andando più a fondo, si può considerare la poesia La camera (p. 27) il testo che più aiuta il lettore a comprendere la reale natura di questa soggettività. Emblematica la chiusa: “l’amniotico sa bene del Se/in assenza di Sé”.
La dicotomia se/sé identifica la donna come il soggetto della “possibilità delle identità”: la donna, quindi, è madre in quanto soggetto che rende possibile la soggettività stessa. Preziosi, quindi, anziché voler esplorare la soggettività femminile, sembra voler leggere nella donna una metasoggettività che rende possibile lo sviluppo della soggettività stessa. Alla luce di ciò, non stupirà che la voce femminile usi un linguaggio estremamente carnale, a volte addirittura volgare, rimandando continuamente alla sfera semantica del ventre e delle viscere. Ad esempio, si può leggere:

Per ogni corpo un grembo
e ad ogni grembo un fiore: solo in seno scorse
nelle falle il Signore. E di germogli m’affannava caudato il tempo.
Era in queste primavere, mi sventravi dentro. Mi si perdoni
la carne amara, la strenua via. Si perde il peccato
si imbastisce l’animo (p. 60).

In questi versi la donna è corpo, il quale è a sua volta caratterizzato dalla presenza del grembo e poi del fiore. Sembra quasi un teorema matematico: a ogni corpo (di donna) corrisponde un grembo, al quale corrisponde a sua volta un fiore (figlio). Manca la dimensione psichica e intima del femminile: il campo semantico del corpo è egemone:

Adesso il talamo non ha
altri occhi che per il ventre
No, inutile dire
non ti riesce di andare
oltre il ventre (p. 75).

Qui si legge tutta la contraddittorietà di tale raccolta: i versi appena letti risuonano come un’accusa a un tu maschile animalesco (“il canto spietato degli ormoni” si può leggere in un verso precedente della stessa poesia) che si limita a considerare la donna come un “ventre”. Eppure, è il linguaggio della raccolta stessa che non riesce ad andare oltre il “ventre”: qualsiasi aspetto del femminino viene descritto attraverso metafore che rimandano alla dimensione fisica. Addirittura, il corpo femminile è scomposto in vari pezzi: seno, ventre, bocca, mani, proprio come accade nel linguaggio maschile, che spesso feticizza il “pezzo” per descrivere la bellezza della donna. Ed è proprio il termine “ventre”, insieme al suo derivato “sventrare”, a comparire più spesso nella raccolta: esso rimanda non solo alla dimensione più bassa dell’essere umano, ma, nella donna, anche alla possibilità del generare:

io, niente, ti amo anche se non ti amo
e forse non amo chi poi verrà dopo
Io, niente, sì amo l’ombra d’un comico
al punto mi viene che…niente,
ti amo e vomito (p. 30)
.

Il ripetersi del verbo “amare” e del tic verbale “niente”, tipico dello slang giovanile contemporaneo, mostrano come l’atto dell’amore in questo io donna non abbia bisogno di un oggetto: non si ama qualcosa, ma si ama un ipotetico “tu” che non viene descritto. L’io ama il tu, ma il continuo ripetersi di “niente” ci mostra come la casella del “tu” sia vuota, non è riempita da un individuo ben preciso. Il “vomitare” che conclude questa poesia ci mostra, ancora una volta, come l’intera scrittura di Variazione Madre rinunci a qualsiasi forma di astrazione al fine di carnificare tutto: il gesto dell’amore, quella tensione che spinge l’io ad avvicinarsi al tu, viene descritta come qualcosa che dal di dentro si getta nel di fuori. Un movimento, inoltre, violento, doloroso e disgustoso. Ancora una volta, ci viene in aiuto la poesia La camera, la quale ha aperto il nostro ragionamento: “La camera è il dolore:/la disambiguazione del corpo” (p. 27). Il ventre, la “camera”, attua una disambiguazione del corpo: lo sdoppia, ma solo per definirlo meglio. Di fronte alla pluralità dei sensi, la disambiguazione aiuta a capire a cosa ci si sta riferendo. La donna in quanto madre genera più io e in questo suo moltiplicarsi, in realtà, si definisce ancora di più, in quanto madre.
La camera è il dolore, il ventre è il dolore: la donna madre, in quanto possibilità del Sé, è anche certezza del dolore. Di fatto, la raccolta è attraversata da questa visione pessimistica in cui la soggettività si esercita soltanto attraverso il dolore: se la donna è la possibilità del Sé, una volta che questo Sé si è realizzato, sarà certo che soffrirà:

Ci sarei tornata con la lingua a pregustare
le camere mortuarie
sapere che dai corpi si può imparare
anche da morti.
… sventrando si impara…
così come sventrandomi ho provato misericordia
e riverenza per gli inganni (p. 71).

Non è solo il linguaggio a spezzare la donna, poiché è ella stessa a spezzarsi, sventrarsi: rinunciando a ogni forma di psicologismo, Variazione Madre fa del corpo l’unica fonte di conoscenza, tant’è che non importa se esso sia vivo o morto: il corpo significa indipendentemente dalla soggettività. Se la vita è dolore, la donna stessa sembra incarnare questa realtà:

Volevo in parole la liberazione corporea
ma il ferro battuto degli ultimi tocchi
coniava di nuovo l’entrata
laddove la gatta pisciava.
Io cagna randagia dai versi di scabbia
ho riposto l’olezzo
nelle medesime scatole
e in questo pelo brandisco le muffe
come un conato eretico
a pezzi di vomito
che i piccioni beccano (p. 72).

Ancora una volta, il testo risulta essere contraddittorio: è il linguaggio corporeo della raccolta a impedire la liberazione. È la forma di Variazione Madre a incatenare il femminile all’interno di una pura dimensione corporea: alla donna, quindi, non resta che liberarsi del di più di corpo che ha al suo interno. Il vomito espelle l’eccesso, così come il parto espelle una soggettività che non è più riconducibile a quella del corpo materno. La disambiguazione permette di selezionare un senso, non di liberarsi del senso stesso. Così la donna madre può solo liberarsi dalla molteplicità corporea senza poter rinunciare alla corporeità stessa.
Emblematici da questo punto di vista i seguenti versi:

C’è della gioia nel dolore dell’insieme
nell’eludere le vampe statiche e onniscienti,
un convivio inalberato d’una resa
come lastrico di zolle in cartapesta.
C’è una foga nello struggersi in parole,
le parole d’istantanee ribellioni, le parole irrorano
i punti del non approdo, come rivissuti invocano vissuti.
C’è del profondo self-amore nello scavo
in questo rancido scucirsi dal petto le ferite, nello scrivere
urlando a bassa voce come un attimo animale sta all’anima
in un appiglio, che è senso d’abbandono il lieve ritrovarsi (p. 50).

C’è un atteggiamento sadomasochistico nell’intera raccolta: qui il dolore si fa gioia, in una sorta di consolazione collettiva. Variazione madre realizza il dolore a ogni verso attraverso il linguaggio carnale: riattualizza la sofferenza. La dimensione poetica, allora, avrebbe il compito di universalizzare l’esperienza soggettiva del dolore, al fine di concedere una sorta di pacificazione: se tutti soffrono, allora la mia sofferenza è già più sopportabile.
Tuttavia, questo sembra essere soltanto un inganno:

Solo un rivolo di sperma mi cola dalle labbra.
Non mi riesce di essere brava. Io non posso
e non sono brava a ingoiare (p. 69).

Quindi, non è una forza della natura a opprimerla, bensì un potere maschile che la obbliga a essere sottomessa, addirittura a non essere “brava” nel provocare piacere, tutto maschile, come nel caso del sesso orale qui evocato. Pertanto, si può dire che l’intera raccolta vuole riconoscere nella donna un dolore universale dell’esistere, quando in realtà questo dolore è soltanto contingente: la donna sottomessa soffre, ma non a causa della sua natura, ma della violenza che è costretta a subire. Alla donna viene concesso soltanto di resistere. Non può rinunciare all’umiliazione, può solo limitarne la portata. Una posizione molto discutibile, soprattutto se espressa da un autore maschile che compare in bella vista sulla copertina.
Su questo punto, è necessario tornare al paratesto: la prima poesia della raccolta è l’unica che rievoca la “mascolinità” dell’autore:

Divenni Figlio, Amore e infine Donna
[…]
Sul sesso piovve del mascara, un inchiostro
di lettere e diari, come se l’autunno
fosse primavera senza polline, mentre io
del miele mi cosparsi il volto.
La notte pregavo le falene di mangiarmi
portandomi da Dio senza condanna.
Dinanzi a lui, non volevo fossi io (p. 19).

L’io maschile compare come “Figlio”: ma la sua non è una metamorfosi, ma soltanto un imbellettamento. Il suo corpo non si trasforma in quello di una donna. Il suo essere donna significa ricoprirsi soltanto dei segni che, secondo la visione maschile, rappresenterebbero la donna: il mascara (il trucco, la frivolezza, l’attenzione per l’apparenza, la sensualità) e il miele (la dolcezza). Di fatto, l’attenzione al corpo così si spiega: l’uomo, potendo accedere soltanto alla superficie della donna, la impersona soltanto attraverso il suo corpo. Così come l’attore giovane che deve ricoprire un ruolo di un vecchio indossa la barba bianca per simboleggiare la vecchiaia che non gli appartiene, così l’io maschile spezza la donna in seni, ventre, bocca per poi ricoprirsene, al fine di simboleggiare il femminile. A mancare, però, è l’armonia: la donna è scomposta e all’uomo sfugge la totalità del femminino. Di fatto, Preziosi analizza una modalità dell’essere donna, quella più tristemente nota storicamente: quella di madre sottomessa.
Preziosi sembra voler affrontare lo stesso calvario storico che la donna ha dovuto subire: costruisce un Sé di donna così come è vista da un uomo. Vuole soffrire come ella ha sofferto, incatenarsi come ella è stata incatenata. Eppure, paradosso di questa scrittura: Variazione Madre riattualizza, seppure per gioco, quei vecchi schemi, impedendo al lettore di intravedere una via di uscita. Il problema è che quegli schemi patriarcali sono fin troppo noti: per tale motivo, la raccolta non so fino a che punto possa essere utile al lettore. Variazione madre, allora, risulta essere un percorso personale dell’autore, che ha voluto vivere lo stesso dolore storico della donna, forse per capire meglio le storture della società.

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