Di Pasquale Vitagliano

Tutta
la prima parte di questa raccolta ha la matura sfrontatezza di
emanciparsi dal “brusio” del verso, quello che, se ben recitato e
con accompagnamento musicale, attrae il pubblico, quello stesso
pubblico che frequenta i reading poetici ma diffida della poesia
scritta che resta prima voce. Un’altra conferma di questa linea
viene dalla scelta di aver alfabeticamente strutturato la sequenza e
l’ordine delle poesie. Tra
il pane e la parola,/ domandandoci/ cosa nutre di più.
Viene
compiuto lo sforzo non comune di “liberare dalla storia” la
poesia, di esaltarne la funzione di scarto e di frattura rispetto
alla realtà, facendole (ri)assumere sulla carta la perduta
sacralità. È un mare
di cielo bianco che mi sommerge/ e, in questa profondità liquida,/
mi accorgo/ che il mare non è da sempre mare.
Ma solo da quando abbiamo imparato a scriverlo. D’altra
parte, mi sembra coraggioso il tentativo, non so quanto cosciente, di
abbozzare a inaspettate forme “mitiche” dei nostri vissuti.
Allora, Hanna&Barbera?/ E
tutti quei maledetti cartoni?/ E quegli orrendi pantaloni corti?/ E
quello stupido cappello di feltro?
Chiaramente non è l’oggetto del verso che definisce il mito ma la
parola poetica. Ogni oggetto, infatti, può diventare mito, sottratto
alla sua esistenza profana e individuale, e aperto ad un universo
suggestivo. Ecco che gli oggetti e le cose della poesia di Malaspina
diventano “un modo di significare, una forma.” E,
per una volta nella vita,/ mi sento davvero bene/ perché di fronte a
me,/ su di un’altra panchina scrostata,/ è seduto Jack Kerouac.
Inoltrandoci
nella lettura di questa raccolta il dubbio sulle strutture che
reggono questa scrittura vengono meno. Dopo la ricerca del mito nella
e attraverso la parola poetica, ci imbattiamo nella riscrittura di
“ciò che è stato scritto”. Un
giorno riscriverò ‘Pinocchio’
per annegare nelle
bugie/ e finire nella pancia della balena,/ lì passerò il resto
della mia vita con un tavolo in legno,/ una scorta di candele,/ ed
una branda per dormire./ Avrò tutto il tempo per rileggere Moby
Dick. Francamente, a
questo punto, la consapevolezza semiologica di questi versi diventa
evidente. E non fosse così sarebbe davvero sorprendente.
Ad
un certo punto, tuttavia, i testi della raccolta si confondono. La
poesia sembra perdere corpo e organicità. Quasi che un fumogeno sia
esploso nel mezzo della scrittura per mettere in fuga il lettore.
Addirittura – anzi, mi domando, se sia voluto e fino a che punto –
salta persino la sequenza alfabetica dei titoli e si rischia di
smarrirsi. Anche la scrittura diventa più incerta, il verso si
espande ma perde forza, vuole, forse, farsi magmatico, ed invece
diventa caotico. Questa cesura fa quest’opera un testo a metà, che
ci mette, però, nella fiduciosa attesa di poter godere di una
scrittura nuova e allo stesso tempo, finalmente, coerente e matura.
Anche nella seconda parte, infatti, scoviamo delle vere e proprie
perle poetiche. Ma quanto può
la gravità sulle mie labbra e la mia lingua/ e sulla mia mano e il
mio inchiostro?!/ Quanto pesa!?/ Gli astronauti di ritorno sulla
terra hanno detto che è come imparare a parlare di nuovo./ Lo è per
me anche scrivere ogni volta il vuoto che mi circonda.
Lo dobbiamo all’Io-poetico che è il vero protagonista di questo
viaggio di Malaspina. Solo che, lo dico ogni giorno a me stesso,
senza struttura, la poesia resta un libro che non viene aperto.
E
forse lo sa lo stesso autore. Vivo
il letargo perenne, lontano dall’incuria del tempo,/ assente agli
altri, nascosto a me stesso,/ perché la mia tomba è una tomba di
libri.
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