Di Giuseppe Cerbino
Con la silloge “Incerto confine”
pubblicata per "Disegno diverso" con le illustrazioni di Albertina
Bollati, Stefano Vitale si conferma nella coerenza del dettato che
lo connota da sempre e con cui egli fa coniugare poesia e impegno
sociale: due poli che spesso vengono ritenuti inconciliabili ma che
nella espressione poetica si legano grazie al potere stesso della parola.
Se è pur vero che la poesia chiama, è altresì vero
che la sua non è una chiamata alle armi ma al dolore dell'altro.
Questa constatazione si invera nella scrittura di Vitale che vede in essa una sorta di riverbero del suo impegno sociale a tutto tondo. “E' il segno di un'altra orbita”
direbbe Montale ma non possiamo ipotizzare che essa apra a una vita
migliore per me quanto piuttosto che faccia apparire una nuova
condizione per una responsabilità che permetta di riflesso una
convivenza. Vitale ne è tanto consapevole quanto dotato di
sufficiente realismo per concludere che il cammino, in tal senso, è
ancora lungo e faticoso. Ci rimane tuttavia il rimedio
dell'espressione artistica, la vera costante, in Vitale, di ogni
adesione etica che tuttavia rimane defilata irrintracciabile nella
realtà, eppure in perenne appello ai poeti.
Oltre
il labirinto delle cose
resta nascosta la scienza
di questa
povera arte
vita che si cerca
nei silenzi turbolenti
entra
in essa
rinasce sprofondando.
L'altro
è il vero protagonista di questi versi, “più reale di ogni
realtà” come direbbe Levinas, in quanto è quella realtà che non
si piega ad alcuna mia rappresentazione e qui si interpola un altro
quid della poesia di Vitale che il poeta siciliano condivide con
altre sensibilità liriche: la visibilità della menzogna rispetto
alla verità sempre traslucida tanto da passare inosservata ma che
non può mai essere smentita, trovando in essa la nostra casa
“desiderata”
Siamo
sospesi a mezza via
tra
gli sguardi illuminati dalla menzogna
e
il mesto tacere di verità deluse
e
tornano il Mai e il Non c’è Nulla da Fare
a
dominare la scena del triste teatro.
Eppure
ancora respiriamo
stretti
nella condanna felice
d’esser
noi stessi tagliente rasoio
talismano
di salvezza contro
l’indifferenza,
spazio segreto
d’una
Casa desiderata
Nella
poesia
di
Stefano Vitale l'altro, che segna il confine con noi, è l'estraneo
ma allo stesso tempo colui con il quale condividiamo le istanze
esistenziali e i drammi anche se non ci appartengono direttamente.
Possiamo dire che il dolore è l'altro in me e me nell'altro in una
sorta di dialettica “escludente” che tenta una laboriosa
conciliazione non attraverso la sintesi ma attraverso la cura. La
poesia di Vitale è in fondo - come accade anche nel suo libro più
rappresentativo, “La saggezza degli ubriachi” (La Vita Felice
editore) - una poesia dell'esodo senza strappo in cui l'altro è lo
straniero in senso assoluto: straniero per la terra che lascia e
straniero per la terra che trova; solo la comunione tra me e lo
straniero nel ritrovarci nello stesso dramma fa sorgere quella casa
comune “desiderata” che possiamo chiamare “Gioia”. In questo
snodo della poetica di Vitale è evidente il riferimento a fatti di
cronaca a noi noti che qui non evochiamo ma che fungono da pretesto
per dare cittadinanza poetica a tematiche di tipo sociologico. E' una
poesia, questa, coraggiosa consapevole del rischio- solo apparente-
di fare della retorica ma allo stesso tempo è una poesia in cui la
retorica stessa è elusa con un linguaggio sontuosamente lirico e
una fortissima intesa alla musicalità.
Nella silloge c'è
una lirica - che riporto in calce- tra le più rappresentative in tal
senso, in cui il poeta, partendo da fatti raccontati e tristemente
conosciuti, attraversa tutto lo spettro simbolico del mediterraneo:
“scabro ed essenziale” per dirla con Montale ma in cui sassi che
“volve” sono diventati corpi umani senza vita, quei corpi che
sono il confine tragico con chi ancora ha fiato in gola per urlare.
Mi vengono in mente dei versi tardi di Giorgio Caproni in cui si
dice: A
che mai serve il pianto/–
posticcio
– del poeta?/Meno che a nulla. È soltanto/fatuo orpello. È viltà.
Io
invece credo che, pur condividendo quanto sostiene Caproni, occorra
dire che se tutte le altre azioni coraggiose si dissolvono nel
mare, di questa “viltà” ci rimane sempre una traccia.
Chiudere
i porti…
Chiudere
i porti e lasciar riposare
le
nere coscienze marce di rabbia
merce
di scambio di stolto rancore
mentre
grasse risate dilagano
nelle
sudice piazze, deragliate ragioni.
Chiudere
i porti e non dover incontrare
l’orrore
di occhi naufraghi in mare
di
corpi salvati piagati dal sole
stremati
da guerre monete sonanti
del
nostro silenzio di barbari stolti.
Chiudere
i porti alla fuga smarrita
sul
mare-sepolcro di cenere e sangue
le
ombre dei morti sono gelate
scure
radici senza più storia
deserto
di muri e orecchie mozzate.
Chiudere
i porti del mare che un tempo
fu
Nostro, libera onda di luce
ora
muro che cresce abisso di sale
specchio
scheggiato dal pianto di pietre
posate
sul fondo del cielo d’estate.
Nessun commento:
Posta un commento