sabato 19 settembre 2020

INCERTO CONFINE di Stefano Vitale e Albertina Bollati

Di Giuseppe Cerbino



Con la silloge “Incerto confine” pubblicata per "Disegno diverso" con le illustrazioni di Albertina Bollati, Stefano Vitale si conferma nella coerenza del dettato che lo connota da sempre e con cui egli fa coniugare poesia e impegno sociale: due poli che spesso vengono ritenuti inconciliabili ma che nella espressione poetica si legano grazie al potere stesso della parola. 
Se è pur vero che la poesia chiama, è altresì vero che la sua non è una chiamata alle armi ma al dolore dell'altro. Questa constatazione si invera nella scrittura di Vitale che vede  in essa una sorta di riverbero del suo impegno sociale a tutto tondo.  “E' il segno di un'altra orbita” direbbe Montale ma non possiamo ipotizzare che essa apra a una vita migliore per me quanto piuttosto che faccia apparire una nuova condizione per una responsabilità che permetta di riflesso una convivenza. Vitale ne è tanto consapevole quanto dotato di sufficiente realismo per concludere che il cammino, in tal senso, è ancora lungo e faticoso. Ci rimane tuttavia il rimedio dell'espressione artistica, la vera costante, in Vitale, di ogni adesione etica che tuttavia rimane defilata irrintracciabile nella realtà, eppure in perenne appello ai poeti. 



Oltre il labirinto delle cose
resta nascosta la scienza
di questa povera arte
vita che si cerca
nei silenzi turbolenti
entra in essa
rinasce sprofondando.


L'altro è il vero protagonista di questi versi, “più reale di ogni realtà” come direbbe Levinas, in quanto è quella realtà che non si piega ad alcuna mia rappresentazione e qui si interpola un altro quid della poesia di Vitale che il poeta siciliano condivide con altre sensibilità liriche: la visibilità della menzogna rispetto alla verità sempre traslucida tanto da passare inosservata ma che non può mai essere smentita, trovando in essa  la nostra casa “desiderata” 

Siamo sospesi a mezza via

tra gli sguardi illuminati dalla menzogna

e il mesto tacere di verità deluse

e tornano il Mai e il Non c’è Nulla da Fare

a dominare la scena del triste teatro.

Eppure ancora respiriamo

stretti nella condanna felice

d’esser noi stessi tagliente rasoio

talismano di salvezza contro

l’indifferenza, spazio segreto

d’una Casa desiderata

Nella poesia di Stefano Vitale l'altro, che segna il confine con noi, è l'estraneo ma allo stesso tempo colui con il quale condividiamo le istanze esistenziali e i drammi anche se non ci appartengono direttamente. Possiamo dire che il dolore è l'altro in me e me nell'altro in una sorta di dialettica “escludente” che tenta una laboriosa conciliazione non attraverso la sintesi ma attraverso la cura. La poesia di Vitale è in fondo - come accade anche nel suo libro più rappresentativo, “La saggezza degli ubriachi” (La Vita Felice editore) - una poesia dell'esodo senza strappo in cui l'altro è lo straniero in senso assoluto: straniero per la terra che lascia e straniero per la terra che trova; solo la comunione tra me e lo straniero nel ritrovarci nello stesso dramma fa sorgere quella casa comune “desiderata” che possiamo chiamare “Gioia”. In questo snodo della poetica di Vitale è evidente il riferimento a fatti di cronaca a noi noti che qui non evochiamo ma che fungono da pretesto per dare cittadinanza poetica a tematiche di tipo sociologico. E' una poesia, questa, coraggiosa consapevole del rischio- solo apparente- di fare della retorica ma allo stesso tempo è una poesia in cui la retorica stessa è elusa con un linguaggio sontuosamente lirico e una fortissima intesa alla musicalità. 
Nella silloge c'è una lirica - che riporto in calce- tra le più rappresentative in tal senso, in cui il poeta, partendo da fatti raccontati e tristemente conosciuti, attraversa tutto lo spettro simbolico del mediterraneo: “scabro ed essenziale” per dirla con Montale ma in cui sassi che “volve” sono diventati corpi umani senza vita, quei corpi che sono il confine tragico con chi ancora ha fiato in gola per urlare. Mi vengono in mente dei versi tardi di Giorgio Caproni in cui si dice: A che mai serve il pianto/posticcio – del poeta?/Meno che a nulla. È soltanto/fatuo orpello. È viltà. 
Io invece credo che, pur condividendo quanto sostiene Caproni, occorra dire che se tutte le altre azioni coraggiose si dissolvono nel mare, di questa “viltà” ci rimane sempre una traccia.


Chiudere i porti…

 

Chiudere i porti e lasciar riposare

le nere coscienze marce di rabbia

merce di scambio di stolto rancore

mentre grasse risate dilagano

nelle sudice piazze, deragliate ragioni.

 

Chiudere i porti e non dover incontrare

l’orrore di occhi naufraghi in mare

di corpi salvati piagati dal sole

stremati da guerre monete sonanti

del nostro silenzio di barbari stolti.

 

Chiudere i porti alla fuga smarrita

sul mare-sepolcro di cenere e sangue

le ombre dei morti sono gelate

scure radici senza più storia

deserto di muri e orecchie mozzate.

 

Chiudere i porti del mare che un tempo

fu Nostro, libera onda di luce

ora muro che cresce abisso di sale

specchio scheggiato dal pianto di  pietre

posate sul fondo del cielo d’estate.





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