Tommaso Landolfi |
Considerato uno dei più importanti autori del novecento, Tommaso Landolfi (1908 - 1979) pubblicò a sorpresa, nel 1972, una corposa raccolta poetica, Viola di Morte, a cui fece seguito, nel 1977, Il tradimento[1]. All’uscita del primo volume, lo scrittore ha 64 anni e una prolifica carriera di romanziere e scrittore di racconti, alle spalle. È inoltre saggista e traduttore dal russo, gode della stima della critica e la sua opera è presente in antologie e su riviste. È in quegli anni più citato che letto, non ha molti lettori, ma oggi, la recente, e ancora in corso, edizione di tutte le opere per la casa editrice Adelphi raccoglie un discreto consenso di pubblico. Conosciuto è il caso di un racconto scritto in una strana lingua, incomprensibile, inventata a detta dei critici e poi svelatasi come costituita di parole sì aduse, ma tutte italianissime, saccheggiate da un vecchio dizionario[2].
Landolfi
era un nobile decaduto, perché visse da nobile a nobiltà ormai estinta,
sperperò una fortuna al gioco e scriveva strani racconti, tra il poetico e il
surrealista, in una lingua ricercata e musicale e, infine, si può dire che
usasse le parole come fossero musica e componesse le sue prose come brani
musicali, formali e vuoti di contenuto. Non denuncia, non spiega, non racconta
di sé, la sua è scrittura per la scrittura, come certe allegorie
rinascimentali, ricche di simboli e senza dramma. Perché Landolfi, anche quando
pare dire verità profondissime, quando descrive il suo “spaventoso stagno
dell’anima e del corpo” o si lancia in filippiche sulla vanità del tutto, sta
solo partecipando a un gioco letterario. Gioco che è meno scoperto nelle sue
poesie solo perché in esse, data la brevità dei singoli componimenti, meno gli
riesce di giocare meta narrativamente con il lettore. E più di un lettore si è
infatti immaginato che il nostro avesse per una volta smesso con l’interpretare
lo scrittore macerato e sornione, fiabesco e crudo, osservatore della società e
surrealista – e che fosse uscito con la sua vera voce[3].
Ma
la vera voce di Landolfi non era mai venuta meno, dai tempi del Mar delle
blatte e della Pietra lunare – una solida e ricca voce, una fervidissima
fantasia, un amore viscerale per il gioco e per la letteratura. Abbiamo così
poesie deliziosamente barocche, non nel senso volgare che oggi si associa a
tale parola di ridondante o concettoso, ma meramente formali, come i madrigali
di Gesualdo da Venosa.
Tu certo, come tutti, rechi
Chiusa in te stessa la tua forma vera,
Ed io dovrei per forza di scarpello
Trarla alla luce…Oh, ingrata impresa,
Oh dura scorza ribelle!
Per cui talvolta mi figuro
D’averti già francata dal tuo sasso
E ti contemplo quale creatura
Monda di colpa, quale cosa pura.
E allora in sogno mi soccorri
Ed hai pietà delle mie sciocche pene
E mi tieni la mano sopra il capo,
alzi il dito e mi mostri ov’è il mio bene.
***
Ahimè, nell’universo
Non ha luogo la morte, ora ben vedo:
L’odiosa vita regna in ogni dove.
Vano è cercare scampo e refrigerio
Al gran barbaglio, travaglio e fragore
D’una maligna estate.
Non si dà tana ombrosa
Né di stagione men rabbioso indizio;
Nessuno torna indietro.
“Schiaccia il capo alla vita”. – Oh amico ignaro!
All’esser nati non è più riparo.
Non ha luogo la morte, ora ben vedo:
L’odiosa vita regna in ogni dove.
Vano è cercare scampo e refrigerio
Al gran barbaglio, travaglio e fragore
D’una maligna estate.
Non si dà tana ombrosa
Né di stagione men rabbioso indizio;
Nessuno torna indietro.
“Schiaccia il capo alla vita”. – Oh amico ignaro!
All’esser nati non è più riparo.
“Il vincere, ho veduto, ha corto passo, /
Mentre infinita perdita è concessa” – dice in un componimento, e altrove: “Differire
è la magica parola / Che dà alla nostra vita luce e sole.” Ecco il senso, o un
senso, a mio parere, delle due raccolte poetiche, e forse dell’intera opera.
Alla base sta la scelta di perdere, di fallire il bersaglio, di rinviare o
ritardare quanto più si può lo scopo, l’obiettivo, la realizzazione, non perché
incapaci di conseguire il traguardo, ma perché l’atto del mancare è, in
letteratura, infinitamente più produttivo che il concludere.
Mi
piace paragonare la sua opera a quella di un grande della pittura, Giorgio De
Chirico. E in effetti, la sua importanza sta qui, in questo formalismo
delizioso, nell’aver egli saputo essere indipendente dalla fiumana ideologica
che ha travolto il novecento e di aver sopra di essa esposto a gran voce il
valore dell’arte come valore in sé, pienamente autosufficiente, e non bisognoso
di fare da stampella o da grancassa alle volubili istanze degli uomini. Di
tutti coloro così impegnati a credere in se stessi da non accorgersi che la
vita è gioco.
[1] Ma
qualcosa i lettori di L. sapevano, componimenti erano in diversi libri, mentre
è del 1959 la tragedia in endecasillabi scioli “Landolfo VI di Benevento”,
Firenze, Vallecchi.
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