venerdì 30 settembre 2016

“SOPRA UN PONTE DI NULLA”: LUCE E ASSENZA NELLA POESIA DI ANNA MARIA ORTESE

Anna Maria Ortese negli ultimi anni della sua vita
Di Carla Cenci

[SECONDA  PARTE -  Leggi la prima parte]

Che per la Ortese la poesia precedesse spesso la scrit­tura in prosa indica allora quanto la minore ricercatezza formale del verso e la sua chiara immediatezza fossero il segno di una preoccupazione preminentemente morale, nell'ottica di un impegno radicale con la vita umana. La prosa avrebbe poi intrapreso la strada che le compete, con un prodotto dal valore artistico più articolato, veico­lante un intreccio complesso dei contenuti, in cui colpi­sce, all'interno della prediletta dialettica realtà-irrealtà, la costante ossimorica delle situazioni:
«Miriadi sono le cose incompiute [...]. Vi è una verità di cose incompiute, degradate — o Umanità, o Realtà, o triste Bellezza! — dove più o meno tutto confluisce».14 Questo ne Il cappello piumato. Ma basti per tutto la sintesi descrittiva del Conte D'Orgaz, maestro di 'espressività' della ragazza Damasa: «Tutto, in questo giovane, era antica assoluta perfezione, e un interiore silenzio, e una dolcezza nata da cose inesorabili. Egli era come la morte quando giunge tra i fiori».15 L'ossimoro impronta dinamicamente di sé tutti i particolari del reale, l'essere nella sua essenza, e la Ortese ne fa il cardine strutturale dell'opera letteraria, spesso fatta di ritorni che sono in realtà lontananze e di svelamenti che sono invece nuovi sigilli del mistero, manifestando in tal modo una precisa intuizione metafisica.
Tale complessità strutturale nella produzione poetica è pressoché assente e l'ossimoro funziona di norma come semplice figura retorica. Pure un verso recita: «La natura­lezza di questa vita piena / di cose non naturali»16a dimo­strazione di come il sentimento della intrinseca contrad­ditorietà dell'esistenza si faccia talvolta nella poesia orte­siana oggetto di pensiero. Ma in un testo risalente agli anni Trenta, che prefigura singolarmente lo stile di poesie più tarde, l'ossimoricità si manifesta dentro la stessa situazione esistenziale: «Il fiume si perde / in una pianura magica, unica strada quella del fiume, unica luce, nel giorno, quella della luna. // Un bosco si profila pieno di festa / malin­conica, e gli uccelli/nella gran luce si danno/ricevimenti d'a­more. // Due amanti passano felici /e malinconici: hanno detto / quasi tutto, l'ultimo / argomento è ancora l'amore / che li fa inquieti e felici.»17
Altri temi assai cari alla Ortese, di esplicito valore metafisico, trovano nell'opera poetica maggiore spazio, come la meditazione sulla mancanza di una vera demar­cazione tra realtà e pensiero e sul costante rovesciamento il quale, alla domanda in cosa consista il reali­smo, risponde: «Dovrebbe essere [...] un'arte di illumina­re il reale. Purtroppo, non si tiene conto che il reale è a più strati, e l'intero Creato, quando si è giunti ad analiz­zare fin l'ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione.»18 Poco oltre è don Ilario a confermare il medesimo pensiero: «Come tutti i nostri giorni, cioè la vita, il cupo mare che ci circonda, cambia perfino sostanza [...] sì da trasformarsi [...] in trepida aria. [...] Sì, vi è del vero in quanto asserivi tu, [...] sulla inesistenza di un vero tratto di demarcazione tra reale e irreale. Ogni cosa, anche appena pensata, subito è reale19 Se poi torniamo alle riflessioni di Damasa, tro­viamo un'interessante ipotesi sull'arte letteraria come «testimonianza» dell'Essere-Espressione: «Di poi, ripen­sandoci, mi parve si questa vita tutta irreale, [...] ma non irreale l'anima dell'uomo e dei viventi tutti; e perciò la Espressività scritta solo una testimonianza dell'uomo; ma, oltre e sopra questa Espressività come testimonianzavive una Espressività Totale, o continente dell'Essere, i cui periodi, le cui pagine e la stessa interpunzione, risul­tano formati dalla infinità di tutto quanto è vivente [...]. Solo ciò [...] aveva più realtà e immortalità di tutto: l'es­sere e il pensare o sentire muto. Sì, [...] tutto si esprime, anche se non in documento [...]. E, una volta espresso, tutto ciò non potrà mai più morire. Vi è una realtà [...] indistruttibile; la sua materia essendo unicamente l'invi­sibile pensiero, quando vedi questa materia o mondo, vedi questo vivente pensiero [...]. Dunque realtà, come cosa pensata è moto di pensiero, Apa è un pensiero [...] D'Orgaz un pensiero che a sua volta pensa».20

Estremamente palese il fondo panteistico e idealistico di questa concezione, che la Ortese condivide con Jorge Louis Borges.21 Ma vorremmo ora raf­frontarla con una poesia in cui prevale la drammaticità che, nel testo narrativo, cede il posto a un più controlla­to atteggiamento intellettuale: «Chi visse? quando? Dove, nella brace / delle aurore, i turchini immensi? E dove / sorge­vi, Terra, dove, Sole, il fuoco /  [...] Chi spinse dentro una cor­rente / senza fine i miei giorni [...] E già comprendi / come tutto sia Istante, / [...] Contemporaneo Luogo della Mente! / Gloria - Orrore - sia a Te! Devoto sguardo / a Te, Numero, Fuga, Grazia, Orrendo, / [...] Respiro che mi abbaglia e acceca, io vedo / che sono un sogno, e Tu solo, matrice / degli Universi, Tu Irreale, il vero. / Da te distrutto, grida questo Simbolo!»22 Nell'andamento biblico di questi versi, quasi a specchio e rovesciamento della concezione antico-testamentaria,23 il sentimento di nullità, l'approdo nichilistico che la teo­ria panteistica comporta non viene eluso, trovando per­sino durata nell'urlo che resta oltre ogni distruzione-annullamento di sé. E qui la Ortese si allontana dal razio­nalismo borgesiano per trovarsi vicina all'autore di Teorema, Pier Paolo Pasolini: «Bene. E cosa dire di me? Di me che sono dove ero, e ero dove sono, automa di una persona reale mandato nel deserto a camminare per essa? IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. [...] È vero: il simbolo della realtà ha qualcosa che la realtà non ha: esso ne rappre-­ senta ogni significato, eppure vi aggiunge [...] un signifi­cato nuovo. Ma [...] questo significato nuovo, mi resta indecifrabile. [...] E perché l'urlo, che, dopo qualche istante, mi esce furente dalla gola, non aggiunge nulla all'ambiguità che finora ha dominato questo mio andare nel deserto? [...] Ad ogni modo questo è certo: che qua­lunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.»24

Quest'ultimo passo ci apre a un ulteriore scandaglio delle problematiche predilette dalla Ortese in poesia, che si aprono a ventaglio, specie negli anni '80 e oltre, sulla consapevolezza del mistero, sull'inconoscibilità dell'es­sere, sul presagio dell'«Altro» e la sua assenza, sulla con­dizione dolorosa del mondo che ha il suo emblema nella gracile realtà infantile.
«Traffica l'altro nel silenzio e luce / della casa che dorme. [...] E di là vidi, dietro i vetri, uguale/la strada iridescente, ed un camino / acceso, dove mai vidi una luce. / Traffica l'altro, ed io sospiro. Fonda / solitudine è questa, e strana. Strano / tutto mi sembra. Se mi volto, è vuoto. / [...] E s'alza un grido in questo nulla: io... [...] / io perché? ...perché l'altro? e questo tenue / domandare, ed i passi, e l'alta pace / della notte? Chi va? Chi, nel silenzio/dove si muove tutto? [...] Io perché sento / la mancanza di nome casa luogo, / se luogo e casa e nome mai esistenti?»25
Sul mondo come segno di «altro» insistono diversi testi. In una poesia, che riportiamo per intero, leggiamo: «E la pioggia è caduta sul cappello / del lume che sta all'ango­lo del vico! / Come sempre! Ma il vico muto splende / di stra­niera bellezza. Altre le case, altro il vento, altra l'alba che riluce / tra le nubi del mondo. E il mondo un altro.»26
Ma ancora questa alterità, il 'là' che tutte le cose indi­cano è come un'alba buia, senza rivelazione, localizzata in una totalità estranea, inintelligibile: «Tutto, nella luce, apprende che il proprio nome è 'là', / e sbigottito esce sulla soglia di Se stesso [...]Che buio ora l'alba, / mentre le acque della Totalità si avventano / contro i piedi gelati dell'Essere, e i marosi [...] monotonamente recitano Salvaci, / Signore, misericordia, da dove siamo!»27 Fino all'ultimo per l'autrice, l'oltre che l'uomo non può da solo significare e la costan­te funzione di rimando dell'essere, con le sue presenze di luce mute esse stesse e indicibili, sono ultimamente con­danna e beffa, ragione del senso universale di dolore, di abbandono e di sradicamento. «Il mare scava nella spiag­gia, / poi va via. / Quando apparisti pensavo / che ti saresti fer­mato: / e ora vai via. / Non è la spiaggia più fredda / del mio cuore, né vasta e tetra / più dei deserti / che lasci nell'anima mia. / Sono a forma di te: / ma tu dove sei, mare?»28
Non vorremmo però concludere senza almeno un accenno a un altro importante lascito tematico della Ortese, che sempre nell'ultimo periodo poetico trova vasto spazio. Il fanciullo emblema dell'inermità, dell'in­differenza in cui il mondo abbandona i piccoli, è figura ricorrente nella sua opera in prosa; ma è soprattutto con L'Iguana e con i più recenti Il Cardillo addolorato, splendi­da prova della Ortese narratrice, e Alonso e i visionari, che il piccolo ignorato dal potere, privo di voce e facile oggetto degli istinti violenti del mondo diviene mistica figura dell'indifeso destinato a portare su di sé la croce del dolore universale, concentrato silenzioso della soffe­rente creazione.

Eppure questo potere — si chiede l'autrice —, che non ha sensi se non per se stesso, «si è mai [...] levato presto, al mattino? Ha sentito il silenzio assoluto del mondo, la gioia imperiale dell'alba? Non lo ha toccato - un minuto più tardi - il grido dell'uccella cui hanno rapito i piccoli, e dei piccoli cui hanno strappato la madre? Parlo dei potenti della terra, Signori, e della loro certezza - demo­cratici o meno, buoni sovrani o cattivi dittatori - di esse­re 'i primi', di essere in diritto di disporre dei boschi e dei loro fanciulli. Ha veramente conosciuto - questo signore dell'alba - la sua propria malvagia vanità, la sua infinita crudeltà che lo porta a disporre dei piccini della terra?»29 Per la Ortese ciò si sposa a una radicale sfiducia nella concezione illuministica di progresso, propria dei tanti Rousseau e Voltaire, perché esso, con la sua moderni­tà, non ha portato «il rispetto dell'alba, del pianto del Cardillo; e del suo ordine di restare fedeli - come i fan­ciulli dei boschi e le loro sorelle - al Nulla, al Poco e alla Pietà per il Nulla, alla compassione per l'abbando­nato».30
Così in una delle poesie più recenti: «Cos'è questo fio­rire mite, / da dove viene questo paterno Universo, se non ha memoria / dei suoi bambini bellissimi, se non li ricorda, non li ama? / Era lui, il padre? O qualcuno che non vedremo mai, / legato a noi solo da un'Assenza eterna? E sei tu, Assenza, /che lasci tracce dovunque, il nome del Fuggiasco?»31 L'infanzia infine come cifra effimera della bontà del mondo, che vive e muore nell'arco del breve tempo concesso, marca­to non tanto dalla morte fisica quanto, simbolicamente, dal sopraggiungere dell'età adulta: «Non sono /piccina. Di razza/ sono adulta, non merito perdono. // [...] La Bontà, cre­dimi, è piccola /piccola; ha gli occhi di fiore. / E dolce. Oh, chie­di perdono / alla universale Bontà.»32
Note
Novalis, Inni alla notte - Canti spirituali, Milano, Mon­dadori, 1982, p. 71.
2 «Terra oltre il mare» in: A. M. Ortese, Il mio paese è la notte, Roma, Empiria, 1996, p. 163.
3 Il titolo della silloge riprende il verso iniziale di una poesia degli anni '70, che dà anche il nome alla vasta sezio­ne interna comprendente i testi dal 1953 in poi. La raccolta ha vinto nel 1997 il Premio Carlo Betocchi.
4 A. M. Ortese, Il mio paese..., cit. p. 5.
5 G. Spagnoletti, Introduzione a: A. M. Ortese, La luna che trascorre, Roma, Empiria, 1998, p. 7.
6 «Primavera ben presto» in: A. M. Ortese, La lima..., cit., pp. 54-5.
7 A. M. Ortese, Il mio paese…, cit., p. 5.
5 «Circo equestre», ivi, p. 157.
9 «E mi alzai ridendo», ivi, p. 112.
10 A. M. Ortese, Il Porto di Toledo, Milano, Rizzoli, 1975,
P. 9.
11 Ivi, p. 14.
12 Ivip. 22
13Ivi, p. 20.
14 A. M. Ortese, Il cappello piumato, Milano, Mondadori, 1979, p. 23.
15 A. M. Ortese, Il Porto..., cit., p. 77.
16 «La naturalezza di questa vita» in: A. M. Ortese, Il mio paese..., cit., p. 138.
17 «Il fiume si perde» in: A. M. Ortese, La luna..., cit., p. 37.
15 A. M. Ortese, L'Iguana, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 61. 19 Ivi, p. 73.

20  A. M. Ortese, Il Porto..., cit. pp. 96-7.
21 Si noti la complementarità di questi versi della Or-tese: «Forse noi sognano di vivere, / forse siamo figure di un sogno da altri sognato, / forse, quando Dio ci sveglierà, ci sve­glieremo» (in: Il mio paese..., cit., p. 169), con quelli tratti dalle poesie «filosofiche» di Borges: «il tempo è la diversa / trama di sogni avidi che siamo / e che il segreto Sognatore disperde»; «Anch'io sono un sogno fuggitivo» in: J. L. Borges, Poesie (1923-1976), Milano, Rizzoli, 1980, p. 233 e p. 295. È superfluo forse notare che tale pensiero non è nuovo nel­l'ambito filosofico-letterario ispanico, con l'illustre ascen­denza di Cervantes, di Calderón de La Barca, e, per tor­nare al nostro secolo, di Miguel de Unamuno, del quale leggiamo: «La vita è sogno. Sarà forse sogno, Dio mio, anche questo Universo di cui sei la coscienza eterna e infi­nita? Sarà un sogno tuo? Sarà che ci stai sognando? Sa­remo un sogno, un sogno tuo, noi sognatori della vita?» in: Miguel de Unamuno, Vita di Don Chisciotte e Sancio, parte II, cap. LXXIV.
22 «Comprensione di una notte d'ottobre» in: A. M. Or-tese, La luna..., cit., p. 75.
23 Si confronti il testo della Ortese con la risposta di Dio a Giobbe: «Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? / Dillo, se hai tanta intelligenza! / Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? / [...] Da quando vivi, hai mai comandato il mattino / e assegnato il posto all'aurora [...]»: Gb, 38, 4-12.
24 P. P. Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 1976 (2), pp. 198-9.
25 «Di notte» in: A. M. Ortese, Il mio paese..., cit., p. 181.
26 «Altro» in: A. M. Ortese, La luna..., p. 81.
27 «Il volo vertiginoso dei giorni», ivi, p. 79. Ci piace qui ricordare l'atmosfera affine dei seguenti versi montaliani, marcata dall'uso, in posizione finale, dello stesso avverbio di luogo: «sotto l'azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: 'più in là!'», in: E. Montale, Ossi di seppia, I Meridiani, Mi­lano, Mondadori, 1987 (3), p. 73.
25 «Il mare scava la spiaggia», ivi, p. 95.
29 A. M. Ortese, Il Cardillo addolorato, Milano, Adelphi, 1993, p. 393.
3° Ivi, p. 394.
31 «Cinque bambini della Creazione a me carissimi» in: A. M. Ortese, Il mio paese..., cit., p. 195. Si confronti la singo­lare convergenza con i seguenti versi dello scrittore svedese (Premio Nobel nel 1951) Par Lagerkvist, nella cui opera la riflessione religiosa occupa un ruolo prioritario: «Uno scono­sciuto è il mio amico, uno che io non conosco. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affat­to? // Chi sei tu che colmi il mio cuore della-tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?», in: P. Lagerkvist, Poesie, Forlì, Guaraldi, 1991, p. 111.
32 «Era una creatura piccina», ivi, p. 204.

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