mercoledì 30 novembre 2016

L'estro poetico di Angelo Maria Ripellino




Angelo Maria Ripellino
Di Leonardo Tonini

Tre elementi si leggono nelle poesie di Angelo Maria Ripellino, tre elementi autobiografici, che si fondono insieme con una verve chagalliana di descrizione surreale e fiabesca della storia e del reale: la sofferta militanza comunista, la vasta e profonda cultura e la salute precaria. A questo si può aggiungere una onestà di fondo, non scontata nei letterati spesso vittime del loro stesso personaggio, che gli fa perdonare qualche ingenuità sentimentale. Famosa è la chiusa di Praga magica, scritto dopo i carri armati:


Ma tutto questo è delirio, nebbia di un'inventiva malata, robaccia da untori. Perché, come il poeta Karel Toman afferma, "l'unica legge è germogliare e crescere, – crescere nella tempesta e nelle intemperie – a dispetto di tutto". E dunque: alla malora gli arúspici e le puttanesche sibille. Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga. Svaniranno in un bàratro i precursori, i monatti. Ed io forse vi ritornerò. Certo che vi ritornerò. In una bettola di Malá Strana, ombre della mia giovinezza, stappate una bottiglia di Mělník. Andrò a Praga, non ci daremo per vinti. Fatti forza, resisti. Non ci resta altro che percorrere insieme il lunghissimo, chapliniano cammino della speranza.

Questo brano  rende, a mio avviso, molto bene l’animo di questo grande intellettuale. Amava definirsi un traduttore prestato alla poesia; lui che aveva tradotto i poeti russi e che dai poeti russi prende molto. Quell’aria di sfida giocosa, la voglia di sintetizzare il mondo in poche righe, l’afflato poetico, il montaggio vorticoso, i dettagli puntuali. Scrive:

Come in giovinezza, ancor oggi scriver poesie è per me soprattutto dare spettacolo, ogni lirica è un esercizio di giocolería e di icarismo sul filo dello spàsimo, un tentavo di tenere a bada la morte con tranelli verbali, bisticci e negozi di immagini. È un’estrema tensione, uno scontro, da cui si esce ogni volta malconci, intontiti, con la schiena rotta, come un toro de lidia, que se desmanda huyendo sin direción…[1]

Ne esce che la figura del poeta per lui è l’irregolare, quello che non si può mettere in una casella, il senza etichetta, senza classificazione:
Mille scuole, mille lune si avvicenderanno nei cieli letterari, ma il poeta sarà sempre un Kao-O-Wang, un nonostante, una sardina decapitata, – e perciò un «fool», rifiutato dall’Indifferenza e sommerso da quell’Eterno Buon Senso che oggi chiamiamo Civiltà dei Consumi, – un fuori sesto, un X a disagio, che si sente colpevole di tutto, senza aver colpa di nulla.

Ma non una figura del disagio fine a se stesso, in senso psicologico, anzi, una militanza, un essere diverso da come si vorrebbe, da come società richiede.

Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo.
Devi associarti a una consorteria
di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickería.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi ai feticci della camorra,
come Abramo dinanzi al volere del cielo.
Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
guai a chi resta solo come un re disperato
fra neri ceffi di lupi digrignanti.[2]

Un poeta che non rifiuta la realtà, anzi ne ha pieno concetto e non vede nella poesia una via di fuga, ma anzi una lotta, un resistere a oltranza nonostante tutto, nonostante il disastro “ il verde allegro dello sfacelo”, appunto.

La volpe medica le sue ferite
con lacrime di làrice. E poi fugge.
Ma tu sei rimasto inchiodato dopo il Diluvio,
con occhi e ciuffo di gufo.
Tu pensi sempre al vistoso gilè di Majakovskij,
come a un attrezzo che possa proteggerti,
come allo strabico farsetto di una sequoia,
anche se fu un malfído talismano.
Qualcosa resiste oltre la brama del suicidio,
oltre la quotidiana sfiducia, − e la vita balbetta,
anche quando vien meno la voglia di vivere,
e i gesti diventano pigri e vischiosi,
ciò che suol dirsi: non posso inghiottire.
Eppure temo che tutto sia vano:
non finirà mai la violenza
sugli altri e su se stessi.[3]

Ci vedo un vademecum per l’intellettuale di oggi, per chi oggi si sente completamente destituito nel suo ruolo sociale, per chi ha cultura, sa di possederla, ma non sa che farne, non sa come non provare un senso di affogamento davanti alla fretta consumistica del mondo. È sempre a questo tu che Ripellino si rivolge nei suoi scritti, e in particolare nelle sue poesie. "Non fare come Majakovskij -dice- che davanti al fallimento della rivoluzione (e della sua vita) scelse la via del suicidio, no, resisti, inventa, crea innanzitutto un nuovo linguaggio". Un linguaggio per sobillare dall’interno il linguaggio del potere, pervasivo, allora come linguaggio burocratico socialista e oggi nelle sue semplificazioni da social network. E la poesia di Ripellino è appunto inattuale e moderna proprio grazie al linguaggio, preciso, colto, eppure diretto. È questa lezione la sua eredità.









[1] [Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli 1967, pp. 133-134]

[2] da “Lo splendido violino verde”, Einaudi, Torino, 1976

[3] da “Notizie dal Diluvio”, Einaudi, Torino, 1969

2 commenti: