Se la
poesia dovesse mai avanzare una pretesa sarebbe innegabilmente quella
di voler essere ascoltata.
E non
per obbedire alla sua primigenia oralità. Piuttosto per la sua
sottesa urgenza di trasmissione delle istanze in essa contenute,
evitando sia il binario morto dell’autoreferenzialità che le
mobili sabbie dell’oblio.
Ecco,
quindi, che la poesia diviene strumento, azione (pragmatismo) e
lascito (testamento storico, morale e umanitario): assioma che al
giovane Rocco Scottellaro dovette sembrare capitale per la
concretizzazione degli ideali morali e politici che già si andavano
formando in lui nell’adolescenza.
Nato a
Tricarico, nella provincia di Matera, in Basilicata, il 19 aprile
1923 da Vincenzo, calzolaio, e Francesca Armento, casalinga, abile
sarta e scrivana “del vicinato”, Rocco Scotellaro trova una
congiuntura storica depressa, fatta di povertà, di totale assenza di
giustizia, di dignità, di politiche di incentivazione per
l’industrializzazione del Sud con conseguente assenza di lavoro e
sviluppo economico. Piaghe che si abbatterono violentemente
soprattutto sulle classi sociali meno abbienti come i contadini e gli
artigiani a causa del regime liberistico che finì per soffocare il
flebile sviluppo manifatturiero che a stento attecchiva al Sud.
Tricarico, dunque, microcosmo e cassa di risonanza di quella annosa
“questione meridionale” che affonda le sue radici già nella
nascente Italia unita e che, di riflesso, ne è addirittura la causa;
Tricarico, provincia meridionale, le cui “terre vergini di zappa”
(così i contadini chiamavano i latifondi, i cui proprietari non si
preoccupavano neppure di dissodare) sarebbero state la soluzione per
numerose famiglie di contadini e allevatori.
Questi
gli alvei delle contingenze in cui scorsero le inquietudini di un
fanciullo, poi adolescente e infine adulto Rocco Scotellaro.
Inquietudini inasprite dalla povertà, dall’immobilismo
cristallizzato degli eventi e dei mutamenti. E soprattutto dalla
totale assenza di una efficace riforma agraria per l’affrancamento
dei numerosi e vasti latifondi. Assenza che esasperava i contadini e
i braccianti fino al livore.
Sono,
dunque, queste le nere tinte di quell’arazzo di miseria e fatica
tessuto dalla storia in cui, erede d’incertezze e di sfiducia ,
cresce Rocco bambino, tinte che subito imbrattano i sogni dei
fanciulli prima delle loro vesti:
“siamo
entrati in gioco anche noi
con
i panni e le scarpe e le facce che avevamo.”.
Gioco
che non è mera attività ludica, bensì condizione umana che per
Scotellaro rappresenta la fucina di una nascente coscienza morale, il
cui flebile barlume intuirono come un’epifania Vincenzo e Francesca
Armento nello sguardo del figlio già capace di scrutare dentro il
dolore la verità delle cose. Capacità affatto rara e insieme
determinante che non poche volte riscontriamo nelle persone umili e
perseguitate dalle avversità, persone che divengono sagge prima che
dotte.
Quel
figlio, che, “Giunto a quattro anni, cominciava a prendere carta e
matita e scriveva segni che gli venivano in testa.”, quel figlio
doveva perentoriamente riscattarsi, scuotersi di dosso la polvere
pesante di un retaggio d’impotenza e rassegnazione, ma senza
interrompere l’atavico patto coi contadini, col mondo dei Padri
della terra: “Ogni giorno sono entrato nel mondo loro, chiuso da un
patto incrollabile”. Quel figlio della Lucania, che in una
conversazione col padre ebbe a dire: “Sai che sono certo di
diventare un pezzo grosso”, quel figlio doveva studiare e
laurearsi.
Terminato
il corso degli studi elementari a Tricarico, Rocco Scotellaro
frequenta il Convitto Serafico dei Cappuccini a Sicignano.
Successivamente, grazie all’aiuto del sacerdote che lo aveva
cresimato viene mandato nel convento dei Francescani , a Cava dei
Tirreni. Ma al secondo anno fa sapere ai sui genitori l’intenzione
di lasciare gli studi: “Sono tanto malvagi, più peccatori di
tutti. Predicano che bisogna fare l’elemosina, ma non pensano ai
poveri, sfruttano il popolo per conto loro.”.
A
Matera dà gli esami ginnasiali. Studia a Potenza, poi a Trento,
ospite in casa della sorella, nel 1940/41 (dove consegue la maturità
classica ed ha i primi contatti col socialismo). È del 1940 la
lirica “Lucania”, probabilmente nata lungo la strada che
Scotellaro percorse dalla stazione di Grassano a piedi fino a
Tricarico al rientro dalla chiusura dell’anno scolastico, giungendo
a destinazione sul finire della notte:
M’accompagna
lo zirlio dei grilli
e il
suono del campano al collo
d’una
inquieta capretta.
Il
vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento
e
là, nell’ombra delle nubi sperduto
giace
in frantumi un paesetto lucano.
Nel
1942, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Roma, dove ottiene
un posto come istitutore in un collegio di Tivoli per
trecentocinquanta lire al mese.
E
sempre nel 1942, il 14 maggio, vedendosi negare a Napoli una partita
di merce costatagli sessantamila lire, bloccata a causa della guerra,
una paralisi, probabilmente causata dal forte dispiacere conduce
Vincenzo Scotellaro alla morte.
La
morte del padre e la guerra costringono Rocco a rientrare a
Tricarico. Si iscrive alla facoltà di Napoli, che abbandona a causa
dei violenti bombardamenti optando poi per quella di Bari, senza mai
conseguire la laurea.
Al
rientro nel suo paese natale ancora lo assale il fiato rancido del
suo mondo rurale in decomposizione; ancora ne sente il lamento:
Cantate,
che cantate?
Non
molestate i padri della terra.
[…]
E solo un ubriaco canta i piaceri
delle
nostre disgrazie.
E
solo lui può sentirsi padrone
in
quest’angolo morto…
I padri
della terra dunque, i contadini, che ancora attendono riscatto da una
nemesi storica bendata e tardiva che li affranchi dallo sfruttamento
dei padroni e dalla miseria:
Ci
hanno gridata la croce addosso
i
padroni
per
tutto che accade e anche per le frane
che
vanno scivolando sulle argille.
[…]
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi
che facciamo?
Strumento;
azione; lascito.
Ecco
ritornare l’assioma di cui ho scritto in apertura. Ecco finalmente
prendere vita la lotta di ogni giorno da parte di Scotellaro: il
poeta contadino si fa finalmente interprete di un dramma secolare,
buttandosi a corpo morto nel focolaio infetto della sua Lucania e
della storia, spesso subendo i sordi attacchi dello sconforto:
Non
gridatemi più dentro
non
soffiatemi in cuore
i
vostri fiati caldi contadini.
Beviamoci
insieme una tazza colma di vino
che
all’ilare tempo della sera
s’acquieti
il nostro vento disperato…
Nel
1943 matura la sua adesione al PSI. Ed è membro attivo del Comitato
di Liberazione a Tricarico, dove per tre anni svolge un intenso
lavoro sindacale e politico che gli valse l’elezione a sindaco alle
Amministrative del 1946, (resterà in carica fino al 1950). Sempre in
quell’anno conosce Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi, amici a cui
resta legato fino alla morte. (Levi fu condannato al confino a
Grassano dal governo fascista nel 1935 e poi trasferito ad Aliano,
sempre in Lucania. Esperienza dalla quale nascerà il romanzo più
famoso di Levi, Cristo si è fermato a Eboli. Romanzo che fece
scoprire la dura realtà del mondo contadino meridionale e che in
parte influenzò anche Scotellaro scrittore trovando in Levi
l’esponente più rappresentativo anche dei contadini di Tricarico,
dei suoi Padri della terra. Rappresentativi sono stati anche Gramsci
politicamente e Quasimodo e Montale nella poesia).
Nel
gennaio del ’47 il partito lo nomina ispettore regionale per il
lavoro giovanile in Basilicata. Sempre nel ’47 viene eletto
presidente di un ospedale civile di Tricarico, ospedale fortemente
voluto da Scotellaro.
Partecipa
all’occupazione delle terre e nel 1950 viene accusato di
concussione dai suoi nemici politici e delatori, accusa da cui viene
prosciolto dopo quarantacinque giorni di carcere.
Reintegrato
nella carica di sindaco si dimette lasciando Tricarico per Roma, dove
lavora per la Einaudi.
Chiamato
successivamente da Manlio Rossi-Doria a Portici presso l’Osservatorio
di Economia Agraria per una stesura degli studi preliminari del Piano
regionale della Basilicata cura la parte relativa ai problemi
igienico-sanitari, all’analfabetismo e alla scuola.
Nel ’52
accetta la candidatura alla provincia, ma non viene eletto, e a
dicembre dello stesso anno insieme a Carlo Levi fa un viaggio in
Calabria per verificare gli effetti della riforma agraria.
Nel
gennaio del ’53 accetta una proposta a collaborare a “Nuova
Repubblica” dove creare le basi per "schieramenti nuovi, più
aderenti alla realtà della situazione italiana che non lo siano i
vecchi strumenti partitici spesso consunti e corrotti".
La sua
vita si concluse a Portici, Napoli, stroncato da un infarto il 15
dicembre 1953 a soli trent’anni, mentre attendeva alla stesura di
un libro sulla cultura dei contadini meridionali per conto di Vito
Laterza, libro che uscirà postumo col titolo di “Contadini del
Sud”.
Pubblico
i riconoscimenti che Scotellaro ebbe in vita e dopo la sua morte per
il suo importantissimo, anche se esiguo, lavoro letterario: Premio de
L’Unità 1947, Premio Roma 1949, Premio Cattolica 1951 (per la
poesia dialettale), Premio Monticchio 1952, Premio Borgese 1953,
Premio S. Pellegrino 1954 (per l’inchiesta Contadini del Sud),
Premio Viareggio 1954.
Il solo
evento che toccò tangenzialmente senza cadere pesantemente addosso
alla sua breve ma intensa parabola di poeta contadino fu senza dubbio
la scoperta poetica, la cui genesi probabilmente rimase inconoscibile
perfino ad esso.
Rocco
Scotellaro visse nell’antro di un tempo imploso su se stesso,
accartocciato in un’era geologica perpetua, dove gli echi degli
eventi rimbalzavano straziati come rimorsi in cerca di perdono,
inascoltati, insoluti.
In
questa mia ricerca personale su Rocco Scotellaro sovente ho trovato
tesi contrastanti, diatribe improvvisate, avvenimenti anacronistici,
amori e disamori veri o presunti, amicizie e inimicizie, negazionisti
dello Scotellaro infartuato e assertori della peritonite…
Concludo
questo mio viaggio fruttuoso con una umile richiesta: “ascoltate”
la poetica di Rocco Scotellaro, al di là di ogni comoda menzogna o
ingombrante verità.
Aprite
i suoi libri e ascoltate cosa ha da dire colui che solo cercò di
mettere fine all’amaro sentimento del suo tempo che a lungo ha
urlato da inesauste fontane di dolore.
Ogni
sua lirica è scritta con parole fedeli ai Padri della terra. Parole
su cui batté il vomere della sua verità, della sua sincerità.
Chissà
che un domani non ritorni in auge tutta la sua poetica, ridiventando
vessillo di rivalsa in faccia alla nostra malasorte. Ma nell’attesa
ascoltate le sue liriche sincere e oneste, così che ognuno guardi
fuori e dentro sé con sguardo nuovo.
Pozzanghera
nera il diciotto aprile.
Carte
abbaglianti e pozzanghere nere
hanno
pittato la luna
sui
nostri muri scalcinati!
I
padroni hanno dato da mangiare
quel
giorno si era tutti fratelli,
come
nelle feste dei santi
abbiamo
avuto il fuoco e la banda.
Ma
è finita, è finita è finita
quest’altra
torrida festa
siamo
qui soli a gridarci la vita
siamo
noi soli nella tempesta.
E
se ci affoga la morte
nessuno
sarà con noi,
e
col morbo e la cattiva sorte
nessuno
sarà con noi.
I
portoni ce li hanno sbarrati
si
sono spalancati i burroni.
Oggi
ancora e duemila anni
porteremo
gli stessi panni.
Noi
siamo rimasti la turba
la
turba dei pezzenti,
quelli
che strappano ai padroni
le
maschere coi denti.
(1948)
Antonello Sollai
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