mercoledì 22 marzo 2017

Nello sguardo del figlio





Viaggio dentro la poesia di Rocco Scotellaro
Rocco Scotellaro

Di  Antonello Sollai

Se la poesia dovesse mai avanzare una pretesa sarebbe innegabilmente quella di voler essere ascoltata.
E non per obbedire alla sua primigenia oralità. Piuttosto per la sua sottesa urgenza di trasmissione delle istanze in essa contenute, evitando sia il binario morto dell’autoreferenzialità che le mobili sabbie dell’oblio.
Ecco, quindi, che la poesia diviene strumento, azione (pragmatismo) e lascito (testamento storico, morale e umanitario): assioma che al giovane Rocco Scottellaro dovette sembrare capitale per la concretizzazione degli ideali morali e politici che già si andavano formando in lui nell’adolescenza.
Nato a Tricarico, nella provincia di Matera, in Basilicata, il 19 aprile 1923 da Vincenzo, calzolaio, e Francesca Armento, casalinga, abile sarta e scrivana “del vicinato”, Rocco Scotellaro trova una congiuntura storica depressa, fatta di povertà, di totale assenza di giustizia, di dignità, di politiche di incentivazione per l’industrializzazione del Sud con conseguente assenza di lavoro e sviluppo economico. Piaghe che si abbatterono violentemente soprattutto sulle classi sociali meno abbienti come i contadini e gli artigiani a causa del regime liberistico che finì per soffocare il flebile sviluppo manifatturiero che a stento attecchiva al Sud. Tricarico, dunque, microcosmo e cassa di risonanza di quella annosa “questione meridionale” che affonda le sue radici già nella nascente Italia unita e che, di riflesso, ne è addirittura la causa; Tricarico, provincia meridionale, le cui “terre vergini di zappa” (così i contadini chiamavano i latifondi, i cui proprietari non si preoccupavano neppure di dissodare) sarebbero state la soluzione per numerose famiglie di contadini e allevatori.
Questi gli alvei delle contingenze in cui scorsero le inquietudini di un fanciullo, poi adolescente e infine adulto Rocco Scotellaro. Inquietudini inasprite dalla povertà, dall’immobilismo cristallizzato degli eventi e dei mutamenti. E soprattutto dalla totale assenza di una efficace riforma agraria per l’affrancamento dei numerosi e vasti latifondi. Assenza che esasperava i contadini e i braccianti fino al livore.
Sono, dunque, queste le nere tinte di quell’arazzo di miseria e fatica tessuto dalla storia in cui, erede d’incertezze e di sfiducia , cresce Rocco bambino, tinte che subito imbrattano i sogni dei fanciulli prima delle loro vesti:

siamo entrati in gioco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.”.

Gioco che non è mera attività ludica, bensì condizione umana che per Scotellaro rappresenta la fucina di una nascente coscienza morale, il cui flebile barlume intuirono come un’epifania Vincenzo e Francesca Armento nello sguardo del figlio già capace di scrutare dentro il dolore la verità delle cose. Capacità affatto rara e insieme determinante che non poche volte riscontriamo nelle persone umili e perseguitate dalle avversità, persone che divengono sagge prima che dotte.
Quel figlio, che, “Giunto a quattro anni, cominciava a prendere carta e matita e scriveva segni che gli venivano in testa.”, quel figlio doveva perentoriamente riscattarsi, scuotersi di dosso la polvere pesante di un retaggio d’impotenza e rassegnazione, ma senza interrompere l’atavico patto coi contadini, col mondo dei Padri della terra: “Ogni giorno sono entrato nel mondo loro, chiuso da un patto incrollabile”. Quel figlio della Lucania, che in una conversazione col padre ebbe a dire: “Sai che sono certo di diventare un pezzo grosso”, quel figlio doveva studiare e laurearsi.
Terminato il corso degli studi elementari a Tricarico, Rocco Scotellaro frequenta il Convitto Serafico dei Cappuccini a Sicignano. Successivamente, grazie all’aiuto del sacerdote che lo aveva cresimato viene mandato nel convento dei Francescani , a Cava dei Tirreni. Ma al secondo anno fa sapere ai sui genitori l’intenzione di lasciare gli studi: “Sono tanto malvagi, più peccatori di tutti. Predicano che bisogna fare l’elemosina, ma non pensano ai poveri, sfruttano il popolo per conto loro.”.
A Matera dà gli esami ginnasiali. Studia a Potenza, poi a Trento, ospite in casa della sorella, nel 1940/41 (dove consegue la maturità classica ed ha i primi contatti col socialismo). È del 1940 la lirica “Lucania”, probabilmente nata lungo la strada che Scotellaro percorse dalla stazione di Grassano a piedi fino a Tricarico al rientro dalla chiusura dell’anno scolastico, giungendo a destinazione sul finire della notte:

M’accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d’una inquieta capretta.
Il vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto
giace in frantumi un paesetto lucano.

Nel 1942, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Roma, dove ottiene un posto come istitutore in un collegio di Tivoli per trecentocinquanta lire al mese.
E sempre nel 1942, il 14 maggio, vedendosi negare a Napoli una partita di merce costatagli sessantamila lire, bloccata a causa della guerra, una paralisi, probabilmente causata dal forte dispiacere conduce Vincenzo Scotellaro alla morte.
La morte del padre e la guerra costringono Rocco a rientrare a Tricarico. Si iscrive alla facoltà di Napoli, che abbandona a causa dei violenti bombardamenti optando poi per quella di Bari, senza mai conseguire la laurea.
Al rientro nel suo paese natale ancora lo assale il fiato rancido del suo mondo rurale in decomposizione; ancora ne sente il lamento:

Cantate, che cantate?
Non molestate i padri della terra.
[…] E solo un ubriaco canta i piaceri
delle nostre disgrazie.
E solo lui può sentirsi padrone
in quest’angolo morto…

I padri della terra dunque, i contadini, che ancora attendono riscatto da una nemesi storica bendata e tardiva che li affranchi dallo sfruttamento dei padroni e dalla miseria:

Ci hanno gridata la croce addosso
i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
[…] Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?

Strumento; azione; lascito.
Ecco ritornare l’assioma di cui ho scritto in apertura. Ecco finalmente prendere vita la lotta di ogni giorno da parte di Scotellaro: il poeta contadino si fa finalmente interprete di un dramma secolare, buttandosi a corpo morto nel focolaio infetto della sua Lucania e della storia, spesso subendo i sordi attacchi dello sconforto:
Non gridatemi più dentro
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato…

Nel 1943 matura la sua adesione al PSI. Ed è membro attivo del Comitato di Liberazione a Tricarico, dove per tre anni svolge un intenso lavoro sindacale e politico che gli valse l’elezione a sindaco alle Amministrative del 1946, (resterà in carica fino al 1950). Sempre in quell’anno conosce Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi, amici a cui resta legato fino alla morte. (Levi fu condannato al confino a Grassano dal governo fascista nel 1935 e poi trasferito ad Aliano, sempre in Lucania. Esperienza dalla quale nascerà il romanzo più famoso di Levi, Cristo si è fermato a Eboli. Romanzo che fece scoprire la dura realtà del mondo contadino meridionale e che in parte influenzò anche Scotellaro scrittore trovando in Levi l’esponente più rappresentativo anche dei contadini di Tricarico, dei suoi Padri della terra. Rappresentativi sono stati anche Gramsci politicamente e Quasimodo e Montale nella poesia).
Nel gennaio del ’47 il partito lo nomina ispettore regionale per il lavoro giovanile in Basilicata. Sempre nel ’47 viene eletto presidente di un ospedale civile di Tricarico, ospedale fortemente voluto da Scotellaro.
Partecipa all’occupazione delle terre e nel 1950 viene accusato di concussione dai suoi nemici politici e delatori, accusa da cui viene prosciolto dopo quarantacinque giorni di carcere.
Reintegrato nella carica di sindaco si dimette lasciando Tricarico per Roma, dove lavora per la Einaudi.
Chiamato successivamente da Manlio Rossi-Doria a Portici presso l’Osservatorio di Economia Agraria per una stesura degli studi preliminari del Piano regionale della Basilicata cura la parte relativa ai problemi igienico-sanitari, all’analfabetismo e alla scuola.
Nel ’52 accetta la candidatura alla provincia, ma non viene eletto, e a dicembre dello stesso anno insieme a Carlo Levi fa un viaggio in Calabria per verificare gli effetti della riforma agraria.
Nel gennaio del ’53 accetta una proposta a collaborare a “Nuova Repubblica” dove creare le basi per "schieramenti nuovi, più aderenti alla realtà della situazione italiana che non lo siano i vecchi strumenti partitici spesso consunti e corrotti".
La sua vita si concluse a Portici, Napoli, stroncato da un infarto il 15 dicembre 1953 a soli trent’anni, mentre attendeva alla stesura di un libro sulla cultura dei contadini meridionali per conto di Vito Laterza, libro che uscirà postumo col titolo di “Contadini del Sud”.
Pubblico i riconoscimenti che Scotellaro ebbe in vita e dopo la sua morte per il suo importantissimo, anche se esiguo, lavoro letterario: Premio de L’Unità 1947, Premio Roma 1949, Premio Cattolica 1951 (per la poesia dialettale), Premio Monticchio 1952, Premio Borgese 1953, Premio S. Pellegrino 1954 (per l’inchiesta Contadini del Sud), Premio Viareggio 1954.

Il solo evento che toccò tangenzialmente senza cadere pesantemente addosso alla sua breve ma intensa parabola di poeta contadino fu senza dubbio la scoperta poetica, la cui genesi probabilmente rimase inconoscibile perfino ad esso.
Rocco Scotellaro visse nell’antro di un tempo imploso su se stesso, accartocciato in un’era geologica perpetua, dove gli echi degli eventi rimbalzavano straziati come rimorsi in cerca di perdono, inascoltati, insoluti.
In questa mia ricerca personale su Rocco Scotellaro sovente ho trovato tesi contrastanti, diatribe improvvisate, avvenimenti anacronistici, amori e disamori veri o presunti, amicizie e inimicizie, negazionisti dello Scotellaro infartuato e assertori della peritonite…
Concludo questo mio viaggio fruttuoso con una umile richiesta: “ascoltate” la poetica di Rocco Scotellaro, al di là di ogni comoda menzogna o ingombrante verità.
Aprite i suoi libri e ascoltate cosa ha da dire colui che solo cercò di mettere fine all’amaro sentimento del suo tempo che a lungo ha urlato da inesauste fontane di dolore.
Ogni sua lirica è scritta con parole fedeli ai Padri della terra. Parole su cui batté il vomere della sua verità, della sua sincerità.
Chissà che un domani non ritorni in auge tutta la sua poetica, ridiventando vessillo di rivalsa in faccia alla nostra malasorte. Ma nell’attesa ascoltate le sue liriche sincere e oneste, così che ognuno guardi fuori e dentro sé con sguardo nuovo.


Pozzanghera nera il diciotto aprile.

Carte abbaglianti e pozzanghere nere
hanno pittato la luna
sui nostri muri scalcinati!
I padroni hanno dato da mangiare
quel giorno si era tutti fratelli,
come nelle feste dei santi
abbiamo avuto il fuoco e la banda.
Ma è finita, è finita è finita
quest’altra torrida festa
siamo qui soli a gridarci la vita
siamo noi soli nella tempesta.

E se ci affoga la morte
nessuno sarà con noi,
e col morbo e la cattiva sorte
nessuno sarà con noi.
I portoni ce li hanno sbarrati
si sono spalancati i burroni.
Oggi ancora e duemila anni
porteremo gli stessi panni.
Noi siamo rimasti la turba
la turba dei pezzenti,
quelli che strappano ai padroni
le maschere coi denti.

                                                             (1948)


Antonello Sollai

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