Il semiologo russo Jurij Michajlovič Lotman |
Di Carla Cenci
L’arte
è la lingua della vita,
col
suo aiuto la realtà ci parla di sé.
J.
M. Lotman 1
Degli innumerevoli tentativi di
definizione della poesia, che si ostina sempre, puntualmente, a
rimanere indefinibile, quello di
Jorge Louis Borges forse
esprime meno di tutti una definizione: la
poesia, dice, è
“una passione e una gioia”.2
Con questo assunto, a prescindere dai
fini espressivi e dalla varietà di generi che possono orientare un
poeta, dal comico al tragico, dall’elegiaco al parodico, e via
elencando, si riconosce generalmente alla poesia la qualità di
rappresentare un’esperienza emozionale intensa e gratificante. Che
si tratti poi di un’esperienza non connessa solo a dinamismi
intellettuali, ma anche mimeticamente fisici, possiamo dedurlo
facilmente, perché, a ben guardare, al godimento di una bella poesia
partecipa tutto il corpo. Pensiero, emozione, gesto, voce, tutto
confluisce in un evento sintetico, speciale e misteriosamente
attraente.
Ma un’interpretazione latamente
deformata dell’intuizione di Borges potrebbe evocare in qualcuno
quella di Johan Huizinga,
che quasi trent’anni prima, nel suo Homo
ludens (1938), scrive:
“Póiesis
è una funzione ludica. (…) Interpretando la serietà come quella
cosa che nei termini della vita vigile è esprimibile in modo
definito, possiamo dire che la poesia non sarà mai completamente
seria. Essa è situata al di là della serietà, in quella zona
primeva dove si sfiorano il bambino, l’animale, il selvaggio e
l’indovino, nella zona del sogno, dell’estasi, dell’ebbrezza e
della risata. Per intendere la poesia bisogna sapersi vestire
dell’anima del bambino come di un camice magico e accettare la
saggezza del bimbo piuttosto che quella dell’uomo”.3
La poesia in questo caso aprirebbe alla
gioia e al piacere solo perché indipendente atto di evasione,
momento non strutturato culturalmente, precursore anzi di ogni
costruzione culturale. Sarà proprio così? O non sarà piuttosto che
Huizinga abbia, inavvertitamente o meno, circoscritto il suo discorso
sulla poesia all’enigmatico, aurorale nucleo da cui essa trae
l’origine senza considerare l’aspetto intenzionale
che ugualmente la caratterizza, finalizzato alla generazione di una
specifica forma d’arte, concreta e storicamente fondata?
Huizinga sembra inoltre lasciarsi
condizionare aprioristicamente dalle relazioni “serietà-definibilità”
e “non serietà-indefinibilità”: occorrerebbe infatti dimostrare
se il serio sia sempre solo ciò che è definibile, e se il “non
serio” debba essere inevitabilmente escluso dalla definibilità.
Sembra che Huizinga releghi la poesia in una bipolarità riduttiva, o
forse solo concettualmente disimpegnata, perché postula
arbitrariamente il nesso “serietà-definibilità” ed esclude in
tal modo che la serietà possa appartenere anche ad un atto per
natura refrattario alla definibilità, come quello, appunto, della
poesia.
Dal semplice riconoscimento del legame
tra la poesia ed una vita fecondamente emozionale può invece restare
fuori ogni puntualizzazione preclusiva, per ravvisare nella poesia
sia potenzialità espressive nutrite dalla dimensione ludica, del
sogno, dell’immaginario, sia proprietà generate dalla riflessione
sugli aspetti “seri” del reale, intenzionalmente individuati,
fattuali o concretamente esistenziali. Ma non solo: si può
riconoscere alla poesia anche una prerogativa di creazione del
possibile e dell’immaginario pienamente rispondente ad una dinamica
razionale.
Non pochi autori del resto hanno spinto
sul pedale della “serietà” costitutiva dell’atto poetico e,
per evitare il restringimento della poesia al solo spazio
dell’evasione, hanno piuttosto sottolineato la strutturale
dipendenza di essa dalla realtà.
In tal modo hanno automaticamente
avvalorato tutte quelle diramazioni tematiche che una riduzione della
poesia al “non serio” lascerebbe ovviamente fuori (come la
narrazione storica, l’argomentazione didascalica e morale, la
meditazione esistenziale e filosofica, la trattazione di argomenti
prettamente civili e politici), ma non solo, perché la loro
riflessione finisce per riconoscere una peculiare vicinanza al reale
anche a quelle esplicitazioni artistiche che maggiormente attingono a
visioni simboliche o analogiche.
“La poesia dipende sempre dal
realismo, e se non sei realista non puoi essere poetessa”:
così la scrittrice americana Flannery
O’Connor, in una lettera
indirizzata alla misteriosa “A.” dell’8.12.1955. 4
La O’Connor, considerando l’importanza
di una lettura a più livelli di significato per la comprensione dei
suoi racconti e romanzi, non limita di certo il realismo alla stretta
verosimiglianza. Per lei la dimensione realistica non è estranea a
scritture allegoriche, simboliche o fortemente analogiche e in questa
prospettiva affermare che la poesia “dipende” dal realismo
significa essenzialmente riconoscere alla realtà una spinta
propulsiva nei confronti dell’arte nel senso più onnicomprensivo.
Così solo il reale, come ineludibile
punto di partenza, permetterebbe alla poesia di non inverarsi in modo
statico o mutilato, esprimendo univoche convinzioni estetiche e
teoriche, e la renderebbe al contrario un veicolo elettivo della
complessità, della profondità, del “gliommero”
(il “gomitolo” di gaddiana memoria) costitutivi del vivere,
dell’esistenza propria, altrui e dell’universo tutto.
La poesia quindi si alimenterebbe in ogni
sua possibile direzione solo nel rapporto dialettico con la realtà
in quanto atto orientato a far memoria del “mistero”,
richiamando una parola che la O’Connor amava molto. Secondo questa
prospettiva, per ogni vero passo poetico, affinché sia duraturo e
rimanga a far compagnia ai posteri, sia esso un solo verso o un
intero poema, è sempre necessaria l’intensità dell’esperienza
reale interamente e seriamente accolta.
Un’ottica condivisa anche da Luigi
Pirandello, esplicitata nel
saggio L’umorismo:
“Ogni
astrazione bisogna che abbia per forza radice in un fatto concreto”.
5
Analogamente
Cesare Pavese,
negli appunti de Il mestiere di
vivere, nota: “La
fantasia umana è immensamente più povera della realtà”
(25.10.1938); “Ciò
che più giova alla poesia, alla ‘letteratura’ di uno che scrive,
è quella parte della sua vita che vivendola gli pareva la più
lontana dalla letteratura”
(12.5.1947).
Per Pavese quel che è vero e utile
all’attività creativa è solo l’esperienza della realtà quando
si concilia dinamicamente con l’attività immaginifica o astrattiva
dell’uomo, riconoscendo
così il giusto ruolo di entrambi i fattori: “Ci
vuole la ricchezza d’esperienza del realismo e la profondità di
sensi del simbolismo”
(14.12.1939). 6
Fatta
salva allora per la poesia la duttile possibilità di essere, proprio
in quanto indissolubilmente radicata nel reale, espressione della
totalità, quindi del serio e del non serio, del definito e
dell’indefinito, del limitato e dell’illimitato, del finito e
dell’infinito, proviamo ora a chiederci perché la poesia può
regalarci l’esperienza liberatoria della gioia, da quale intrinseca
qualità, parte profonda della sua natura, essa deriva.
L’avventura
della gioia, sia nel leggere sia nello scrivere versi, si palesa a un
livello macroscopico e socialmente condivisibile. Sicuramente, nel
cercare una prima risposta al perché di questo universale
sentimento, inciampiamo subito nell’evidenza del valore della
creatività per l’uomo, che veicola sempre una stupefacente
percezione di libertà e di gratificazione. Vera e propria cognizione
di felicità, origine della passione ricordata da Borges e che, una
volta provata, pone l’uomo in una disposizione al fare poetico
(inteso anche in senso generalmente creativo) inalienabile.
Dobbiamo
però scendere ancora di livello nel nostro scavo, per domandarci da
cosa può ragionevolmente scaturire il senso di libertà e di
valorizzazione interiore che l’esercizio della poesia veicola così
universalmente. A cosa cerca di rispondere, quale esigenza profonda
l’uomo tenta di soddisfare attraverso la poesia?
Forse
Sergej
Esenin
può venirci in aiuto con questi due versi: “Essere
poeti significa cantare la libertà e lo spazio / perché siano per
te più noti”.
7
Balena
qui l’ipotesi che all’origine della gratificazione creativa ci
possa essere la soddisfazione di un bisogno innato di conoscenza e di
chiarimento, di un’esigenza conoscitiva che, a ben guardare, si
lega nell’uomo strettamente al desiderio di estrapolare
dall’anonimato, dalla superficialità e dall’indifferenza gli
avvenimenti che hanno attirato la sua attenzione.
Jean-Pierre
Lemaire
racconta così la dinamica propria di tale esigenza: “Tutti
noi facciamo degli incontri che sono più o meno chiari, senza per
questo provare il bisogno di scrivere. Il poeta è chi chiede un nome
a questo incontro, di legarlo a delle parole, ad altri nomi. Altre
persone si accontentano di parlarne con un linguaggio quotidiano; il
poeta, invece, non può accontentarsi perché ha la sensazione di
un’approssimazione la quale tradisce l’essenziale dell’esperienza
che ha vissuto. Ha il desiderio di essere fedele, per cui deve
lavorare con la lingua, per poter restituire ciò che ha vissuto. Si
diventa poeti per questo desiderio di fedeltà, affinché le parole
non tradiscano, anzi siano fedeli alla sua sensazione. Non sono
esperienze che ci contraddistinguono dalle altre persone. Ma la più
parte della gente non ha il tempo o la passione per descrivere ciò
che corrisponde ad un’esperienza unica. La poesia chiarisce ciò
che viviamo. La sua logica non ha pretese di spiegare. La poesia ha
una propria coscienza, diversa dalla coscienza che si ha come
individui. Le parole hanno una propria logica e, rileggendo certe
poesie, constato che ci sono cose che ho capito, in quanto poeta,
molto dopo. Eppure la poesia era stata scritta da me. La poesia
accompagna la vita, ma su una via parallela, in un tempo e una
coscienza diversi”.8
La
poesia quindi, secondo la sua natura e le sue possibilità, può
costituire una peculiare modalità di chiarificazione e di
conoscenza.
In
tal senso, rielaborare con le parole della poesia un’esperienza
rappresenterebbe il tentativo di comprenderla riconoscendole un
significato o una gamma di significati, fedeli alla sua natura
particolare, secondo però i termini di un pensiero del tutto
peculiare, non semplicemente astratto, bensì integrato dalla
capacità di “sentire” l’esperienza nella sua interezza.
Proprio in questa sintesi di attività intellettuale e insieme
empatica si configurerebbe la specificità della conoscenza poetica.
Come
possiamo parlare con qualche maggiore precisione del pensiero della
poesia? Possiamo dire che il pensiero della poesia si incarna in
primo luogo nella parola fondata in un’azione misteriosamente
indefinibile e oscuramente immateriale, nel nodo, forse
inesplorabile, di un atto sinteticamente intellettuale ed affettivo.
Possiamo
però anche dire che il pensiero della poesia si declina in un
processo concreto, che si realizza in un’attività peculiare e non
generica, rivolta ad una realtà unica e di natura sensibile, la
forma d’arte. Il pensiero quindi che si volge alla concretezza
espressiva della poesia tende ad una realtà intrinsecamente
organizzata e autonoma, a un nucleo di esistenza singolare e regolato
da scelte specifiche (metro, ritmo, rime, assonanze…), che altro
non è che la poesia nel suo esito fattuale, l’arte-factus,
la poiêsis
come “evento” scaturito dal
poiêin (“creare,
fare”).
Eppure, proprio
nella sua consistenza singolare e irripetibile di opera d’arte, la
poesia svela la sua autenticità quando riesce a offrirsi in una
cifra universale, per declinarsi in senso storico e nello stesso
tempo a-storico, come risultato di un pensiero tale da trascendere la
determinazione storica.
Sul pensiero della
poesia possiamo inoltre dire che, nonostante l’impossibilità di
districare il nodo di intelletto e affettività che la
contraddistingue, è sbagliato limitare a priori la poesia alla
dimensione non razionale. Il compito della poesia individuato da
Lemaire, come lavoro artigianale sulla lingua per rispondere ad un
imperativo di fedeltà all’esperienza vissuta, cos’è se non una
fatica guidata da una mirata applicazione della ragione?
La ragione poetica
è sorgivamente intessuta dalla duplice convergenza tra una
spontaneità interiore e spirituale e un moto intellettuale
individuato e perseguito. Si pensi ad esempio a Dante, in grado di
stupirci con una sintesi stupefacente tra espressioni del sentimento,
dell’affettività umana, e contenuti teologici, filosofici, morali.
Si pensi anche ai molti esempi della poesia greco-latina, dove il
contenuto mitico/mitologico ed emotivo è sapientemente inserito in
un contesto concettualmente determinato e rivolto a verità
razionalmente condivisibili. O alla forza argomentativa ed emozionale
che nei secoli ha distinto il sonetto.
L’ago espressivo
può inoltre spostarsi tra una minore o maggiore presenza dei due
aspetti, eccedendo nel senso di una poesia prevalentemente
caratterizzata da un’architettura concettuale, come nel genere
allegorico, o, all’opposto, in quello più lontano da una logica
discorsiva, ad esempio laddove ecceda l’elemento emotivamente
spontaneo o onirico.
Tuttavia, comunque
si orienti l’espressione, nulla toglie che si possa attribuire al
pensiero della poesia una valenza genuinamente razionale.
Sulla poesia come
azione indelebilmente razionale si è espresso in termini illuminanti
Robert
Musil,
in un saggio del 1918, dal titolo La
conoscenza del poeta.
Per Musil il poeta appartiene a coloro che sanno usare la razionalità
in modo coerente e autentico, e in tal modo si collocano al di fuori
dell’atteggiamento “razioide” proprio dell’uomo borghese.
Quest’ultimo ha deformato le propria razionalità, piegandola verso
i principi del possesso, della sicurezza e del calcolo
utilitaristico. Il poeta invece, come uomo razionale
non-razioide,
si colloca da sempre nello spazio aperto del possibile, del nuovo e
dell’irripetibile. Egli, a prescindere dalla qualità dei suoi
scritti, non è portatore di una conoscenza monca, né la facoltà
poetica è un’esclusiva di quelli che scrivono poesie. Considerare
il poeta “solo
come colui che conosce in un determinato modo e in una determinata
sfera, è una riduzione voluta, giustificabile naturalmente soltanto
in relazione ai suoi risultati. Ma ogniqualvolta si discorrerà del
poeta come d’una specie di uomo particolare, si ricordi che non si
intendono con questo unicamente coloro che scrivono; molti vi
appartengono che rifuggono l’attività, essi rappresentano il
pendant
reattivo della parte attiva del tipo.
(…) In
verità egli è uomo d’eccezione solo in quanto è l’uomo che
bada alle eccezioni. Non è né il ‘folle’, né il ‘veggente’,
né il ‘bambino’, né qualche anomalia della ragione. Egli non
usa neppure una modalità e una capacità di conoscenza diversa da
quella dell’uomo razionale”.
9
Sorprendentemente,
queste parole di Musil potrebbero figurare come una precisa replica
al pensiero di Huizinga sulla poesia, se non fossero state scritte
esattamente venti anni prima; e insieme ad esse possiamo ora più
consapevolmente aderire a quanto sopra accennato sul rapporto
sinergico poesia-realtà e considerare ancor più essenziale nel
pensiero della poesia la capacità di attenzione al mondo,
all’interezza del reale, che comprende l’oggettività e la
soggettività, ciò che è tangibile e sperimentabile e ciò che
appartiene alla dimensione del possibile e si declina nella fantasia,
nel sogno, nell’immaginazione, fino alle regioni ludiche e
“serissime” del non-senso, che ad esempio molti amano ricercare
attraverso prove di metasemantica o nei limerick.
Inoltre, come non
scorgere nel nesso tra facoltà razionale e pensiero poetico una
costitutiva coincidenza nel comune essere “apertura”. La vera
razionalità sarebbe dunque intrinsecamente “poetica”, e l’essere
poetico del pensiero fiorirebbe solamente nell’uomo capace di
sviluppare tutte le potenzialità insite nel suo essere razionale.
Ma, andando ancora
più a fondo, potremmo inferire ulteriori corrispondenze. Se la
razionalità, come costitutiva apertura all’essere, si colloca al
cuore di ogni sincera “produttività” umana, così altrettanto
accade alla poesia, ora intesa come essenza della creazione artistica
tout
court,
la quale, per una felice circolarità, deve proprio la sua forza
etimologica al già ricordato verbo poiêin.
“Fare”, appunto.
Oltre a ciò, posta
la facoltà razionale-poetica come accoglienza orientata alla
creazione, per un’interessante reciprocità ontologica tale facoltà
esiste in quanto essa stessa accolta dal mondo, il quale si dispiega
e si offre al suo sguardo significante per crearla a sua volta.
L’uomo che accoglie sarebbe così colui che viene accolto, secondo
una sintesi profondamente racchiusa nel verbo “abitare”, fulcro
del famoso verso attribuito ad Hölderlin: “poeticamente
abita l’uomo su questa terra”.
10
La
riflessione fin qui condotta ci ha consentito di poter, quasi
sovversivamente, insistere su una conoscenza propria della
“razionalità” poetica quando nell’idea comune l’unica vera
conoscenza sarebbe possibile solo nell’ottica della razionalità
scientifico-matematica, centrata sulle categorie di ripetibilità,
misurabilità e oggettività.
Ma,
come abbiamo riconosciuto una valenza razionale e autenticamente
conoscitiva al pensiero della poesia, le cui dinamiche analogiche lo
separano dalla tipica univocità del linguaggio matematico, vorremmo
interrogarci anche su come la poesia, nel suo esito di concreta forma
d’arte, possa mantenere un valore condivisibile di conoscenza anche
quando permanga nell’ambito di un’espressione più soggettiva, o
eccedente nella stratificazione semantica, come nel caso della
“profondità di sensi del simbolismo” a cui ci aveva richiamato
Pavese.
Sappiamo
ormai che il portato conoscitivo della poesia non si costruisce su
una distanza. Ciò implica che la razionalità poetica conosce per
connaturalità, per mezzo dell’affettività e del patimento. Si
potrebbe intendere come una conoscenza dell’essere dall’interno
dell’essere stesso, mìmeṡis
della realtà intesa come riconoscimento dei suoi significati proprio
grazie all’adesione completa ad essa, che fa del poeta, in quanto
colui che accoglie, un osservatore “paziente” del reale. Per
questa naturale ricettività, il pensiero della poesia non può
essere statico e tende invece al senso di un universo stratificato di
eventi (cose, ricordi, passioni, fatti, persone…) di cui non può
mai esaurirne la complessità congenita.
Nel
consegue che il
lavoro di chiarimento e di comprensione con cui il poeta guarda
all’esperienza può consistere in un processo alchemico complesso,
tortuosamente articolato nell’interazione tra la realtà, le
proprie aspirazioni espressive e la dotazione di specifiche facoltà
intellettuali ed emozionali, e la poesia che ne scaturisce può
essere segnata dalla preminenza del fattore soggettivo, con tutte le
eventuali oscurità a discapito della completa intelligibilità del
messaggio.
Ciò
tuttavia, fino a un certo grado, escludendo cioè quegli intenti
creativi che estremizzano l’aspetto autoreferenziale e quasi
azzerano la comunicazione, l’elemento personale insito in una
poesia, come in ogni creazione d’arte, non sarà mai un ostacolo
serio alla circolazione di significati partecipabili ed anche validi
universalmente. Questo perché il veicolo elettivo della comprensione
dei significati frutto dell’atto poetico, così misteriosamente
intessuto di vita interiore ed esteriore, di emozione e intelletto,
di soggettività e oggettività, consiste proprio nel coinvolgimento
dell’umanità nella sua interezza, a differenza di quanto accade
nella comunicazione di contenuti peculiari del pensiero
speculativo–astratto o scientifico-matematico.
La
poesia allora, paradossalmente, può comunicare il proprio portato
semantico in senso universale grazie alla profondità della sua
radice personale e spirituale. E’ nella sintonia empatica che si
instaura quando il lettore e il poeta si incontrano all’interno
dell’evento creativo che i significati di questo evento si
comunicano. Un incontro attraverso cui anche il lettore può
attivare, sempre secondo la propria unica individualità, un
meccanismo conoscitivo che azzera le distanze, così come il pensiero
del poeta annulla le proprie nei confronti del reale.
Sempre
in modo analogo, per il lettore la conoscenza poetica si invera
attraverso il momento della connaturalità, del patimento comune, di
una corrispondenza che potremmo anche definire “comunionale”,
perché di natura individuale e, insieme, partecipabile
comunitariamente.
Note
- J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1972, p. 10
- J. L. Borges, L’invenzione della poesia. Le lezioni americane, Mondadori, Milano, 2004, p. 6.
- J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1946, p. 140
- F. O’Connor, Sola a presidiare la fortezza – Lettere, Einaudi, Torino 2001
- L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Giunti, Firenze 1994, p. 17
- C. Pavese, Il mestiere di vivere: diario 1935-1950, Einaudi, Torino 1952
- Il testo completo della poesia di Esenin è il seguente:
“Essere poeta
significa la stessa cosa, / Se non si vìola la verità della vita, /
Cicatrizzare le proprie ferite su una tenera pelle, / Accarezzare le
anime altrui col sangue dei sentimenti. // Essere poeti significa
cantare la libertà e lo spazio, / Perchè siano per te più noti. /
L'usignolo canta - non gli fa male, / Lui canta sempre la stessa
canzone. // Il canarino canta con voce altrui - / E' un misero,
ridicolo giocattolino. / Il mondo ha bisogno che la parola di canto /
Venga cantata da dentro, persino se è canto di rana. // Maometto è
stato astuto nel suo Corano, / Nel vietare le bevande forti, / Per
questo il poeta non smetterà / Di bere il vino, quando va verso la
tortura. // E quando il poeta va dalla sua amata, / E l'amata giace
sul letto con un altro, / Serbato dall'acqua della vita, / Egli non
le ficcherà il coltello nel cuore. // Ma, ardendo di ardore geloso,
/ Fischietterà ad alta voce fino a casa: / ‘Che importa, morirò
da vagabondo, / Anche questo è ben noto sulla terra’”.
In “Poesia”,
Mensile internazionale di cultura poetica, Anno XXI, Gennaio 2008, n.
223, Crocetti Editore, Milano, p. 96 (da S. Esenin, Poesie
e poemetti,
a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2000).
- J. P. Lemaire, da Il sentimento nuovo dell’albero, intervista a cura di Silvio Guerra, in “ClanDestino”, Rivista trimestrale di letteratura e poesia, n. 1/2000, pp. 18-23.
- R. Musil, La conoscenza del poeta – saggi, a cura di Chiara Monti, SugarCo Edizioni, Milano 1979, pp. 88-89
- Il verso è estrapolato da un insieme di frasi attribuite a Hölderlin e tramandato da Wilhelm Waiblinger nell’opera Phäton del 1823. Il testo, forse tratto da un manoscritto che Waiblinger avrebbe avuto da Ernst Zimmer, o forse da Hölderlin stesso, inizia con “In amabile azzurro” (“In lieblicher Bläuer”) e contiene a un certo punto il seguente passo: “È sconosciuto Dio? È evidente come il cielo? Così credo, piuttosto. È la misura dell’uomo. Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra”. Cfr. F. Hölderlin, Poesie scelte, Feltrinelli, Milano 2010, p. 284.
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