venerdì 2 febbraio 2018

Passione, realtà, conoscenza nel pensiero della poesia

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Il  semiologo russo 

Jurij Michajlovič Lotman

Di Carla Cenci 

L’arte è la lingua della vita,
col suo aiuto la realtà ci parla di sé.

J. M. Lotman 1



Degli innumerevoli tentativi di definizione della poesia, che si ostina sempre, puntualmente, a rimanere indefinibile, quello di Jorge Louis Borges forse esprime meno di tutti una definizione: la poesia, dice, è “una passione e una gioia”.2
Con questo assunto, a prescindere dai fini espressivi e dalla varietà di generi che possono orientare un poeta, dal comico al tragico, dall’elegiaco al parodico, e via elencando, si riconosce generalmente alla poesia la qualità di rappresentare un’esperienza emozionale intensa e gratificante. Che si tratti poi di un’esperienza non connessa solo a dinamismi intellettuali, ma anche mimeticamente fisici, possiamo dedurlo facilmente, perché, a ben guardare, al godimento di una bella poesia partecipa tutto il corpo. Pensiero, emozione, gesto, voce, tutto confluisce in un evento sintetico, speciale e misteriosamente attraente.


Ma un’interpretazione latamente deformata dell’intuizione di Borges potrebbe evocare in qualcuno quella di Johan Huizinga, che quasi trent’anni prima, nel suo Homo ludens (1938), scrive:
Póiesis è una funzione ludica. (…) Interpretando la serietà come quella cosa che nei termini della vita vigile è esprimibile in modo definito, possiamo dire che la poesia non sarà mai completamente seria. Essa è situata al di là della serietà, in quella zona primeva dove si sfiorano il bambino, l’animale, il selvaggio e l’indovino, nella zona del sogno, dell’estasi, dell’ebbrezza e della risata. Per intendere la poesia bisogna sapersi vestire dell’anima del bambino come di un camice magico e accettare la saggezza del bimbo piuttosto che quella dell’uomo”.3

La poesia in questo caso aprirebbe alla gioia e al piacere solo perché indipendente atto di evasione, momento non strutturato culturalmente, precursore anzi di ogni costruzione culturale. Sarà proprio così? O non sarà piuttosto che Huizinga abbia, inavvertitamente o meno, circoscritto il suo discorso sulla poesia all’enigmatico, aurorale nucleo da cui essa trae l’origine senza considerare l’aspetto intenzionale che ugualmente la caratterizza, finalizzato alla generazione di una specifica forma d’arte, concreta e storicamente fondata?
Huizinga sembra inoltre lasciarsi condizionare aprioristicamente dalle relazioni “serietà-definibilità” e “non serietà-indefinibilità”: occorrerebbe infatti dimostrare se il serio sia sempre solo ciò che è definibile, e se il “non serio” debba essere inevitabilmente escluso dalla definibilità. Sembra che Huizinga releghi la poesia in una bipolarità riduttiva, o forse solo concettualmente disimpegnata, perché postula arbitrariamente il nesso “serietà-definibilità” ed esclude in tal modo che la serietà possa appartenere anche ad un atto per natura refrattario alla definibilità, come quello, appunto, della poesia.
Dal semplice riconoscimento del legame tra la poesia ed una vita fecondamente emozionale può invece restare fuori ogni puntualizzazione preclusiva, per ravvisare nella poesia sia potenzialità espressive nutrite dalla dimensione ludica, del sogno, dell’immaginario, sia proprietà generate dalla riflessione sugli aspetti “seri” del reale, intenzionalmente individuati, fattuali o concretamente esistenziali. Ma non solo: si può riconoscere alla poesia anche una prerogativa di creazione del possibile e dell’immaginario pienamente rispondente ad una dinamica razionale.

Non pochi autori del resto hanno spinto sul pedale della “serietà” costitutiva dell’atto poetico e, per evitare il restringimento della poesia al solo spazio dell’evasione, hanno piuttosto sottolineato la strutturale dipendenza di essa dalla realtà.
In tal modo hanno automaticamente avvalorato tutte quelle diramazioni tematiche che una riduzione della poesia al “non serio” lascerebbe ovviamente fuori (come la narrazione storica, l’argomentazione didascalica e morale, la meditazione esistenziale e filosofica, la trattazione di argomenti prettamente civili e politici), ma non solo, perché la loro riflessione finisce per riconoscere una peculiare vicinanza al reale anche a quelle esplicitazioni artistiche che maggiormente attingono a visioni simboliche o analogiche.

La poesia dipende sempre dal realismo, e se non sei realista non puoi essere poetessa”: così la scrittrice americana Flannery O’Connor, in una lettera indirizzata alla misteriosa “A.” dell’8.12.1955. 4
La O’Connor, considerando l’importanza di una lettura a più livelli di significato per la comprensione dei suoi racconti e romanzi, non limita di certo il realismo alla stretta verosimiglianza. Per lei la dimensione realistica non è estranea a scritture allegoriche, simboliche o fortemente analogiche e in questa prospettiva affermare che la poesia “dipende” dal realismo significa essenzialmente riconoscere alla realtà una spinta propulsiva nei confronti dell’arte nel senso più onnicomprensivo.
Così solo il reale, come ineludibile punto di partenza, permetterebbe alla poesia di non inverarsi in modo statico o mutilato, esprimendo univoche convinzioni estetiche e teoriche, e la renderebbe al contrario un veicolo elettivo della complessità, della profondità, del “gliommero” (il “gomitolo” di gaddiana memoria) costitutivi del vivere, dell’esistenza propria, altrui e dell’universo tutto.
La poesia quindi si alimenterebbe in ogni sua possibile direzione solo nel rapporto dialettico con la realtà in quanto atto orientato a far memoria del “mistero, richiamando una parola che la O’Connor amava molto. Secondo questa prospettiva, per ogni vero passo poetico, affinché sia duraturo e rimanga a far compagnia ai posteri, sia esso un solo verso o un intero poema, è sempre necessaria l’intensità dell’esperienza reale interamente e seriamente accolta.

Un’ottica condivisa anche da Luigi Pirandello, esplicitata nel saggio L’umorismo: Ogni astrazione bisogna che abbia per forza radice in un fatto concreto”. 5
Analogamente Cesare Pavese, negli appunti de Il mestiere di vivere, nota: La fantasia umana è immensamente più povera della realtà” (25.10.1938); “Ciò che più giova alla poesia, alla ‘letteratura’ di uno che scrive, è quella parte della sua vita che vivendola gli pareva la più lontana dalla letteratura” (12.5.1947).
Per Pavese quel che è vero e utile all’attività creativa è solo l’esperienza della realtà quando si concilia dinamicamente con l’attività immaginifica o astrattiva dell’uomo, riconoscendo così il giusto ruolo di entrambi i fattori: “Ci vuole la ricchezza d’esperienza del realismo e la profondità di sensi del simbolismo” (14.12.1939). 6

Fatta salva allora per la poesia la duttile possibilità di essere, proprio in quanto indissolubilmente radicata nel reale, espressione della totalità, quindi del serio e del non serio, del definito e dell’indefinito, del limitato e dell’illimitato, del finito e dell’infinito, proviamo ora a chiederci perché la poesia può regalarci l’esperienza liberatoria della gioia, da quale intrinseca qualità, parte profonda della sua natura, essa deriva. 


L’avventura della gioia, sia nel leggere sia nello scrivere versi, si palesa a un livello macroscopico e socialmente condivisibile. Sicuramente, nel cercare una prima risposta al perché di questo universale sentimento, inciampiamo subito nell’evidenza del valore della creatività per l’uomo, che veicola sempre una stupefacente percezione di libertà e di gratificazione. Vera e propria cognizione di felicità, origine della passione ricordata da Borges e che, una volta provata, pone l’uomo in una disposizione al fare poetico (inteso anche in senso generalmente creativo) inalienabile.

Dobbiamo però scendere ancora di livello nel nostro scavo, per domandarci da cosa può ragionevolmente scaturire il senso di libertà e di valorizzazione interiore che l’esercizio della poesia veicola così universalmente. A cosa cerca di rispondere, quale esigenza profonda l’uomo tenta di soddisfare attraverso la poesia?

Forse Sergej Esenin può venirci in aiuto con questi due versi: “Essere poeti significa cantare la libertà e lo spazio / perché siano per te più noti”. 7
Balena qui l’ipotesi che all’origine della gratificazione creativa ci possa essere la soddisfazione di un bisogno innato di conoscenza e di chiarimento, di un’esigenza conoscitiva che, a ben guardare, si lega nell’uomo strettamente al desiderio di estrapolare dall’anonimato, dalla superficialità e dall’indifferenza gli avvenimenti che hanno attirato la sua attenzione.

Jean-Pierre Lemaire racconta così la dinamica propria di tale esigenza: “Tutti noi facciamo degli incontri che sono più o meno chiari, senza per questo provare il bisogno di scrivere. Il poeta è chi chiede un nome a questo incontro, di legarlo a delle parole, ad altri nomi. Altre persone si accontentano di parlarne con un linguaggio quotidiano; il poeta, invece, non può accontentarsi perché ha la sensazione di un’approssimazione la quale tradisce l’essenziale dell’esperienza che ha vissuto. Ha il desiderio di essere fedele, per cui deve lavorare con la lingua, per poter restituire ciò che ha vissuto. Si diventa poeti per questo desiderio di fedeltà, affinché le parole non tradiscano, anzi siano fedeli alla sua sensazione. Non sono esperienze che ci contraddistinguono dalle altre persone. Ma la più parte della gente non ha il tempo o la passione per descrivere ciò che corrisponde ad un’esperienza unica. La poesia chiarisce ciò che viviamo. La sua logica non ha pretese di spiegare. La poesia ha una propria coscienza, diversa dalla coscienza che si ha come individui. Le parole hanno una propria logica e, rileggendo certe poesie, constato che ci sono cose che ho capito, in quanto poeta, molto dopo. Eppure la poesia era stata scritta da me. La poesia accompagna la vita, ma su una via parallela, in un tempo e una coscienza diversi”.8

La poesia quindi, secondo la sua natura e le sue possibilità, può costituire una peculiare modalità di chiarificazione e di conoscenza.
In tal senso, rielaborare con le parole della poesia un’esperienza rappresenterebbe il tentativo di comprenderla riconoscendole un significato o una gamma di significati, fedeli alla sua natura particolare, secondo però i termini di un pensiero del tutto peculiare, non semplicemente astratto, bensì integrato dalla capacità di “sentire” l’esperienza nella sua interezza. Proprio in questa sintesi di attività intellettuale e insieme empatica si configurerebbe la specificità della conoscenza poetica.

Come possiamo parlare con qualche maggiore precisione del pensiero della poesia? Possiamo dire che il pensiero della poesia si incarna in primo luogo nella parola fondata in un’azione misteriosamente indefinibile e oscuramente immateriale, nel nodo, forse inesplorabile, di un atto sinteticamente intellettuale ed affettivo.
Possiamo però anche dire che il pensiero della poesia si declina in un processo concreto, che si realizza in un’attività peculiare e non generica, rivolta ad una realtà unica e di natura sensibile, la forma d’arte. Il pensiero quindi che si volge alla concretezza espressiva della poesia tende ad una realtà intrinsecamente organizzata e autonoma, a un nucleo di esistenza singolare e regolato da scelte specifiche (metro, ritmo, rime, assonanze…), che altro non è che la poesia nel suo esito fattuale, l’arte-factus, la poiêsis come “evento” scaturito dal poiêin (“creare, fare”).
Eppure, proprio nella sua consistenza singolare e irripetibile di opera d’arte, la poesia svela la sua autenticità quando riesce a offrirsi in una cifra universale, per declinarsi in senso storico e nello stesso tempo a-storico, come risultato di un pensiero tale da trascendere la determinazione storica.

Sul pensiero della poesia possiamo inoltre dire che, nonostante l’impossibilità di districare il nodo di intelletto e affettività che la contraddistingue, è sbagliato limitare a priori la poesia alla dimensione non razionale. Il compito della poesia individuato da Lemaire, come lavoro artigianale sulla lingua per rispondere ad un imperativo di fedeltà all’esperienza vissuta, cos’è se non una fatica guidata da una mirata applicazione della ragione?
La ragione poetica è sorgivamente intessuta dalla duplice convergenza tra una spontaneità interiore e spirituale e un moto intellettuale individuato e perseguito. Si pensi ad esempio a Dante, in grado di stupirci con una sintesi stupefacente tra espressioni del sentimento, dell’affettività umana, e contenuti teologici, filosofici, morali. Si pensi anche ai molti esempi della poesia greco-latina, dove il contenuto mitico/mitologico ed emotivo è sapientemente inserito in un contesto concettualmente determinato e rivolto a verità razionalmente condivisibili. O alla forza argomentativa ed emozionale che nei secoli ha distinto il sonetto.
L’ago espressivo può inoltre spostarsi tra una minore o maggiore presenza dei due aspetti, eccedendo nel senso di una poesia prevalentemente caratterizzata da un’architettura concettuale, come nel genere allegorico, o, all’opposto, in quello più lontano da una logica discorsiva, ad esempio laddove ecceda l’elemento emotivamente spontaneo o onirico.

Tuttavia, comunque si orienti l’espressione, nulla toglie che si possa attribuire al pensiero della poesia una valenza genuinamente razionale.
Sulla poesia come azione indelebilmente razionale si è espresso in termini illuminanti Robert Musil, in un saggio del 1918, dal titolo La conoscenza del poeta. Per Musil il poeta appartiene a coloro che sanno usare la razionalità in modo coerente e autentico, e in tal modo si collocano al di fuori dell’atteggiamento “razioide” proprio dell’uomo borghese. Quest’ultimo ha deformato le propria razionalità, piegandola verso i principi del possesso, della sicurezza e del calcolo utilitaristico. Il poeta invece, come uomo razionale non-razioide, si colloca da sempre nello spazio aperto del possibile, del nuovo e dell’irripetibile. Egli, a prescindere dalla qualità dei suoi scritti, non è portatore di una conoscenza monca, né la facoltà poetica è un’esclusiva di quelli che scrivono poesie. Considerare il poeta “solo come colui che conosce in un determinato modo e in una determinata sfera, è una riduzione voluta, giustificabile naturalmente soltanto in relazione ai suoi risultati. Ma ogniqualvolta si discorrerà del poeta come d’una specie di uomo particolare, si ricordi che non si intendono con questo unicamente coloro che scrivono; molti vi appartengono che rifuggono l’attività, essi rappresentano il pendant reattivo della parte attiva del tipo. (…) In verità egli è uomo d’eccezione solo in quanto è l’uomo che bada alle eccezioni. Non è né il ‘folle’, né il ‘veggente’, né il ‘bambino’, né qualche anomalia della ragione. Egli non usa neppure una modalità e una capacità di conoscenza diversa da quella dell’uomo razionale”. 9

Sorprendentemente, queste parole di Musil potrebbero figurare come una precisa replica al pensiero di Huizinga sulla poesia, se non fossero state scritte esattamente venti anni prima; e insieme ad esse possiamo ora più consapevolmente aderire a quanto sopra accennato sul rapporto sinergico poesia-realtà e considerare ancor più essenziale nel pensiero della poesia la capacità di attenzione al mondo, all’interezza del reale, che comprende l’oggettività e la soggettività, ciò che è tangibile e sperimentabile e ciò che appartiene alla dimensione del possibile e si declina nella fantasia, nel sogno, nell’immaginazione, fino alle regioni ludiche e “serissime” del non-senso, che ad esempio molti amano ricercare attraverso prove di metasemantica o nei limerick.
Inoltre, come non scorgere nel nesso tra facoltà razionale e pensiero poetico una costitutiva coincidenza nel comune essere “apertura”. La vera razionalità sarebbe dunque intrinsecamente “poetica”, e l’essere poetico del pensiero fiorirebbe solamente nell’uomo capace di sviluppare tutte le potenzialità insite nel suo essere razionale.
Ma, andando ancora più a fondo, potremmo inferire ulteriori corrispondenze. Se la razionalità, come costitutiva apertura all’essere, si colloca al cuore di ogni sincera “produttività” umana, così altrettanto accade alla poesia, ora intesa come essenza della creazione artistica tout court, la quale, per una felice circolarità, deve proprio la sua forza etimologica al già ricordato verbo poiêin. “Fare”, appunto.
Oltre a ciò, posta la facoltà razionale-poetica come accoglienza orientata alla creazione, per un’interessante reciprocità ontologica tale facoltà esiste in quanto essa stessa accolta dal mondo, il quale si dispiega e si offre al suo sguardo significante per crearla a sua volta. L’uomo che accoglie sarebbe così colui che viene accolto, secondo una sintesi profondamente racchiusa nel verbo “abitare”, fulcro del famoso verso attribuito ad Hölderlin: “poeticamente abita l’uomo su questa terra”. 10

La riflessione fin qui condotta ci ha consentito di poter, quasi sovversivamente, insistere su una conoscenza propria della “razionalità” poetica quando nell’idea comune l’unica vera conoscenza sarebbe possibile solo nell’ottica della razionalità scientifico-matematica, centrata sulle categorie di ripetibilità, misurabilità e oggettività.
Ma, come abbiamo riconosciuto una valenza razionale e autenticamente conoscitiva al pensiero della poesia, le cui dinamiche analogiche lo separano dalla tipica univocità del linguaggio matematico, vorremmo interrogarci anche su come la poesia, nel suo esito di concreta forma d’arte, possa mantenere un valore condivisibile di conoscenza anche quando permanga nell’ambito di un’espressione più soggettiva, o eccedente nella stratificazione semantica, come nel caso della “profondità di sensi del simbolismo” a cui ci aveva richiamato Pavese.

Sappiamo ormai che il portato conoscitivo della poesia non si costruisce su una distanza. Ciò implica che la razionalità poetica conosce per connaturalità, per mezzo dell’affettività e del patimento. Si potrebbe intendere come una conoscenza dell’essere dall’interno dell’essere stesso, mìmeis della realtà intesa come riconoscimento dei suoi significati proprio grazie all’adesione completa ad essa, che fa del poeta, in quanto colui che accoglie, un osservatore “paziente” del reale. Per questa naturale ricettività, il pensiero della poesia non può essere statico e tende invece al senso di un universo stratificato di eventi (cose, ricordi, passioni, fatti, persone…) di cui non può mai esaurirne la complessità congenita.
Nel consegue che il lavoro di chiarimento e di comprensione con cui il poeta guarda all’esperienza può consistere in un processo alchemico complesso, tortuosamente articolato nell’interazione tra la realtà, le proprie aspirazioni espressive e la dotazione di specifiche facoltà intellettuali ed emozionali, e la poesia che ne scaturisce può essere segnata dalla preminenza del fattore soggettivo, con tutte le eventuali oscurità a discapito della completa intelligibilità del messaggio.
Ciò tuttavia, fino a un certo grado, escludendo cioè quegli intenti creativi che estremizzano l’aspetto autoreferenziale e quasi azzerano la comunicazione, l’elemento personale insito in una poesia, come in ogni creazione d’arte, non sarà mai un ostacolo serio alla circolazione di significati partecipabili ed anche validi universalmente. Questo perché il veicolo elettivo della comprensione dei significati frutto dell’atto poetico, così misteriosamente intessuto di vita interiore ed esteriore, di emozione e intelletto, di soggettività e oggettività, consiste proprio nel coinvolgimento dell’umanità nella sua interezza, a differenza di quanto accade nella comunicazione di contenuti peculiari del pensiero speculativo–astratto o scientifico-matematico.
La poesia allora, paradossalmente, può comunicare il proprio portato semantico in senso universale grazie alla profondità della sua radice personale e spirituale. E’ nella sintonia empatica che si instaura quando il lettore e il poeta si incontrano all’interno dell’evento creativo che i significati di questo evento si comunicano. Un incontro attraverso cui anche il lettore può attivare, sempre secondo la propria unica individualità, un meccanismo conoscitivo che azzera le distanze, così come il pensiero del poeta annulla le proprie nei confronti del reale.
Sempre in modo analogo, per il lettore la conoscenza poetica si invera attraverso il momento della connaturalità, del patimento comune, di una corrispondenza che potremmo anche definire “comunionale”, perché di natura individuale e, insieme, partecipabile comunitariamente.

Carla Cenci


Note

  1. J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1972, p. 10
  2. J. L. Borges, L’invenzione della poesia. Le lezioni americane, Mondadori, Milano, 2004, p. 6.
  3. J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1946, p. 140
  4. F. O’Connor, Sola a presidiare la fortezza – Lettere, Einaudi, Torino 2001
  5. L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Giunti, Firenze 1994, p. 17
  6. C. Pavese, Il mestiere di vivere: diario 1935-1950, Einaudi, Torino 1952
  7. Il testo completo della poesia di Esenin è il seguente:
Essere poeta significa la stessa cosa, / Se non si vìola la verità della vita, / Cicatrizzare le proprie ferite su una tenera pelle, / Accarezzare le anime altrui col sangue dei sentimenti. // Essere poeti significa cantare la libertà e lo spazio, / Perchè siano per te più noti. / L'usignolo canta - non gli fa male, / Lui canta sempre la stessa canzone. // Il canarino canta con voce altrui - / E' un misero, ridicolo giocattolino. / Il mondo ha bisogno che la parola di canto / Venga cantata da dentro, persino se è canto di rana. // Maometto è stato astuto nel suo Corano, / Nel vietare le bevande forti, / Per questo il poeta non smetterà / Di bere il vino, quando va verso la tortura. // E quando il poeta va dalla sua amata, / E l'amata giace sul letto con un altro, / Serbato dall'acqua della vita, / Egli non le ficcherà il coltello nel cuore. // Ma, ardendo di ardore geloso, / Fischietterà ad alta voce fino a casa: / ‘Che importa, morirò da vagabondo, / Anche questo è ben noto sulla terra’”.
In “Poesia”, Mensile internazionale di cultura poetica, Anno XXI, Gennaio 2008, n. 223, Crocetti Editore, Milano, p. 96 (da S. Esenin, Poesie e poemetti, a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2000).
  1. J. P. Lemaire, da Il sentimento nuovo dell’albero, intervista a cura di Silvio Guerra, in “ClanDestino”, Rivista trimestrale di letteratura e poesia, n. 1/2000, pp. 18-23.

  1. R. Musil, La conoscenza del poeta – saggi, a cura di Chiara Monti, SugarCo Edizioni, Milano 1979, pp. 88-89
  2. Il verso è estrapolato da un insieme di frasi attribuite a Hölderlin e tramandato da Wilhelm Waiblinger nell’opera Phäton del 1823. Il testo, forse tratto da un manoscritto che Waiblinger avrebbe avuto da Ernst Zimmer, o forse da Hölderlin stesso, inizia con “In amabile azzurro” (“In lieblicher Bläuer”) e contiene a un certo punto il seguente passo: “È sconosciuto Dio? È evidente come il cielo? Così credo, piuttosto. È la misura dell’uomo. Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra”. Cfr. F. Hölderlin, Poesie scelte, Feltrinelli, Milano 2010, p. 284.




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