Di Federico Preziosi
Carne e ossa. Di
cos’altro è fatto un essere umano? Sì, certamente si può dire
anche di emozioni e sentimenti, eppure quanto resterebbe di queste in
assenza di carne e ossa? Da queste premesse sembra muoversi la poesia
di Marina Marchesiello contenuta nella silloge La
resurrezione necessaria, affidata alla curatela di
Giuseppe Cerbino per la collana Lepisma Floema di Controluna
Edizioni: versi dove il corpo diventa l’oggetto depositario
dell’esistenza.
Carne e ossa si pongono in relazione al tempo,
nell’arco della vita mutano nelle dimensioni e nelle forme,
costituiscono la struttura portante della parabola umana. Ciò non
deve spingere il lettore a credere di essere dinanzi a una poesia dai
toni lugubri o gotici, tutt’altro. Marina Marchesiello canta la
vita attraverso la pienezza del corpo: non esiste alcun
compimento, nessun desiderio, non restano nemmeno le emozioni una
volta che il corpo ha concluso la propria esperienza. In quest’ottica
la poesia di apertura, Sono sopravvissuta per
la bellezza, è già molto eloquente: «Sono sopravvissuta
per la bellezza / di essere rimasta sempre un corpo / con una
fantasia a parte» (p. 16), come dire, senza corpo si è già fuori
dal perimetro della vita, deprivati del proprio Essere.
«Io vago con naso / io valgo di cuore / ancora annuso / se mi viene
un ricordo lo amo / se mi viene un ricordo perdo il pelo / e le
carezze me le manda il cielo» (p.18).
Il corpo è il luogo in
cui si distribuiscono i sensi. Non è un caso che l’uomo abbia
avuto nei secoli la necessità di individuare in un organo, il cuore,
il centro del sentimento, della pulsione, dell’inspiegabile e della
forza emozionale. Il cuore cambia il proprio ritmo al cospetto di
determinati stimoli, siano anche semplici ricordi o accadimenti
ri-percepiti. Per una memoria che affiora alla mente tutto si può
stravolgere, persino una vita intera, e in questo mutare si
rintraccia il proprio affidarsi all’altro: un cielo, un dio,
un’entità suprema e misteriosa in grado di dare senso all’essere
umano e alla sua esistenza.
Cos’è allora La
resurrezione necessaria?: «guarda ciò che hai lasciato»
(p. 20), indica l’autrice, dunque un lascito esistenziale che
rivive, ma sempre nel corpo di chi ama. Ciò che è stato nostro un
tempo si preserva, resta tale dentro chi ha accolto l’amore,
volente o nolente, e ha imparato ad assaporare con i gesti, gli
sguardi, i pensieri che dalle cose quotidiane si generano. Una
resurrezione necessaria per chi resta e sopravvive all’abbandono
ricreando dentro sé una condizione spirituale solidissima, un
microcosmo articolato che tenti di ricostruire il perduto dandogli un
prosieguo. Ogni cosa è potenziale lascito, non c’è vera morte se
dentro sé risorge e si preserva quell’amore che muove da ciò che
si è amato in quanto parte di un’intima coscienza vitale e
caratterizzante, qualcosa che potremmo definire anima. Essa è la
protagonista tra le righe della silloge: «Se il pensiero di essere
ha uno scheletro stesso / io non so se lo vorrò seppellire» (p.
21). Che sia lo scheletro stesso, l’impalcatura della carne, a
essere anima? Nell’esigenza di conferire materialità all’Essere
affinché qualcosa di noi resti, si vorrebbe superare l’esperienza
della morte con il non seppellire, la testimonianza.
La memoria,
l’immaginazione, lo scorrere della vita procura ancora pulsioni. È
movimento dentro, è sentire l’altro nei centri “nevralgici”
del proprio corpo: «Mi segno di morte l’indice, / per le mani del
mio mondo tutto vivo, / che ogni mattina del risveglio riavverato /
si uniscono le dita, fingendo siano, anche sempre, le stesse tue»
(p. 33). Ed è sempre il corpo a tenere banco, anche nelle sensazioni
più intime e taciute: «Non ti ho detto niente del mio mare. / Era
diverso, erano spasimi di sale, / nel crescer la carne».
Affiora
nei versi un sentimento di resistenza alla vita, ma al tempo stesso
di amore perduto e incondizionato, come se alla fine fosse questa
l’unica cosa a restare, pertanto la si dispensa fino a quando lo
consentono le forze, fino a quando le energie vitali riescono a
reggere il peso dell’esistenza. Lo so come
avviene la consunzione è una testimonianza di questo
struggimento necessario che lacera, ma appare necessario alla
resurrezione. C’è un limite all’amore ed è la resistenza
all’amore stesso, un atto vitale che consuma e Marina Marchesiello
ne è ben consapevole: «So che devo bruciare / farmi più viva /
anche di tutti i miei bianchi incendi / che io sempre ho nei sogni»
(p. 78).
La resurrezione necessaria
rappresenta un manuale dell’amore esistenziale, ha il sapore di un
abbraccio lieve e disperato. Se ne avverte l’impeto, la forza, ma
ciò che muove il tutto è un mondo invisibile fatto di sangue,
arterie, cuore, carne e ossa. Il corpo è smottamento dell’anima
per amore. La poesia esprime una voce fuori campo che sovrasta il
dolore, riconnette l’assenza e la mancanza alla vita assimilando
tutto come un finito necessario. Solo attraverso la corporeità si
può durare e, successivamente, risorgere.
Lo so come avviene la consunzione
da commozione.
Con questa arsura di essere piante
vive e secche,
da balcone, a tarda sera.
Con radici biforcute
per riconoscere l’acqua nuova
nell’antica zolla.
Lo so come preme l’ascesi
del cuore alla testa.
Mentre si mangia un pezzo di pizza di ieri
e si contano gli assenti a tavola
improvvisamente presenti in
bocca,
in uno spicchio di lingua
che tarda a dire tutti i loro nomi.
Per tenerseli stretti, a strisciare,
lungo le pareti di pancia
(lo sai che è lei che ricorda)
che mal digerisce ogni lutto.
Lo so come funziona
questo fluire di viole nelle vene
(lo sai che è il sangue il tuo fiore)
al pensiero.
Finché di nuovo ci si assopisce
con il rumore della lavatrice del vicino.
Vorrei dirmi certa
che il tempo è cambiato.
Un panno slavato, di fresco,
quello che ero.
Sarebbe ora pulito e asciutto
come un vecchio imbroglio,
quello di cui ho bisogno.
in uno spicchio di lingua
che tarda a dire tutti i loro nomi.
Per tenerseli stretti, a strisciare,
lungo le pareti di pancia
(lo sai che è lei che ricorda)
che mal digerisce ogni lutto.
Lo so come funziona
questo fluire di viole nelle vene
(lo sai che è il sangue il tuo fiore)
al pensiero.
Finché di nuovo ci si assopisce
con il rumore della lavatrice del vicino.
Vorrei dirmi certa
che il tempo è cambiato.
Un panno slavato, di fresco,
quello che ero.
Sarebbe ora pulito e asciutto
come un vecchio imbroglio,
quello di cui ho bisogno.
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