
Di Beatrice Orsini
Una consapevolezza
agrodolce attraversa i testi di Viviana Viviani, ossia lo sfasamento
temporale che caratterizza ogni incontro e – per estensione –
ogni relazione umana, soprattutto quella amorosa. L’appuntamento è,
da sempre, mancato (L’universo non vuole/che ci incontriamo oggi);
anzi, in maniera ancora più estrema, si potrebbe dire che
l’appuntamento è tale proprio in quanto mancato e, ciononostante,
pervicacemente preteso e inseguito (“Ho sfinito le amiche/e mia
madre ti odia/non c’è più nessuno/per parlare di te”).
Un’antinomia per nulla incoerente si riverbera ad ogni pagina:
quella che, da un parte, è avvertita del disincanto insito in ogni
amore e, dall’altra, quella che non vuole rinunciare al miraggio
dell’altro.
“Ma gli inganni umani
sono imperfetti”, obbligando a una giostra infernale che si ripete
di volta in volta, illudendo la disillusione stessa. E per dire il
tragico dell’esistenza, la Viviani sceglie di abitare la dimensione
lieve, ma non superficiale, della commedia. Appoggiandosi ad uno
stile linguistico aderente al lessico della quotidianità, financo la
più intima, e perfettamente collocata nel tempo odierno dei social
(esemplificativa la poesia intitolata “Non mandarmi il tuo c@zzo in
chat”), l’autrice riprende in maniera personale un filone già
perseguito da altre poetesse, quali Vivian Lamarque, Patrizia Cavalli
e, in un certo qual modo, Wisława Szymborska.
Gli amori sono sempre
difficili, anche un po’ patetici, non per questo meno autentici
nello slancio necessariamente fallimentare che li contraddistingue.
Forse per questo occorre un gesto generoso e altruistico che si dia
in partenza, una scommessa senza garanzia di reso, quell’appello
accorato e quasi adolescenziale con cui la Viviani si rivolge ad un
tu non meglio identificato: “Se mi ami sopravvalutami/non cadere
nell’inganno/di amarmi per quello che sono/sono stanca di
faticare/di dovermi sempre impegnare/tu indossami senza
provarmi/comprami senza garanzia/se mi ami sopravvalutami/sii bello e
condannato/un premio estratto a sorte/un dono immeritato”.
All’altro non si può
che far dono della propria mancanza e l’altro, di contro, non può
che amarci per ciò che non siamo, con un atto quasi di fede atea e
incosciente nelle qualità che giustificherebbero, agli occhi di
terze persone, un presunto amore e che, alla conta dei fatti, nemmeno
possediamo. Del resto “Donde non esisteva,/era solo un avverbio./E
così in quel momento/sono diventata atea.” Non per questo il
desiderio ci abbandona. E, come insegna Calvino, “al termine di un
viaggio per raggiungere l’amante, un uomo capisce che la vera notte
d’amore è quella che ha passato in uno scomodo scompartimento di
seconda classe correndo verso di lei.”.
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