martedì 13 settembre 2016

Giorgio Caproni e le carte

Giorgio Caproni  (foto di Dino Ignani)
Di Giuseppe Cerbino

LE CARTE


Imbrogliare le carte,

far perdere la partita,

è il compito del poeta?

lo scopo della sua vita?



Giorgio Caproni



Da "L'opera in versi"

***

Questi versi di Giorgio Caproni evocano una crisi della poesia intesa come guida che apre certezze e chiama a sé gli dei del senso, hölderlianamente parlando.



Il poeta livornese suggerisce, con una domanda che vorrebbe quasi imporsi come retorica, una concezione molto diversa da quella classica e romantica del poeta inteso come messaggero degli dei (una disintegrazione, in verità, già presente nel primo Montale e in molti poeti del primo novecento, ma che in Caproni assume una dimensione più drammatica e vissuta senza lo sguardo intellettuale e filosofico di Montale) .

Per il nostro livornese, il poeta è un imbroglione, un contrabbandiere di parole che passano sottobanco sviando i controlli di una metaforica dogana. 

Il poeta è colui che inganna che fa perdere qualsiasi punto d'appoggio, qualsiasi certezza.
Non più colui che, secondo una notissima espressione di Montale scopre "il punto morto del mondo, l'anello che non tiene"; infatti ricordando che menzogna deriva da “mente” e quindi da capacità creativa, possiamo affermare che è proprio qui che si realizza lo scarto rispetto a Montale: questo impegno all'inganno, questo votarsi alla menzogna produce un movimento dinamico che testimonia l'insofferenza ad accettare delle verità qualsiasi perché solo la menzogna, la creatività, rende l'uomo protagonista della propria vita (perché è egli stesso a determinarla con l’estro) e non bisognoso di conoscenze precise sul mondo.

L'opera di Caproni si iscrive all'interno di una letteratura europea che lamenta l'impossibilità di imporsi nella società perché quest'ultima procede su binari diversi e su dogmi che non sono più letterari ( basti pensare ai grandi modelli presenti in opere come l’Odissea o l’Iliade).
Purtroppo la società sta perdendo la sua memoria letteraria che si estingue in un frastuono da discoteca.

Ed ecco allora insinuarsi la domanda di Caproni: in un mondo in cui la dispersione e l'inautenticità diventano sostanza del reale, l'unica soluzione non è forse che la letteratura operi un inganno per distorcere lo sguardo dal reale che, appunto,  uccide e spersonalizza?
E' questo oggi il compito del poeta?
Ingannare per tornare paradossalmente alla verità?
Ora leggiamo una notissima poesia di Montale e cerchiamo di cogliere una linea evolutiva tra il premio Nobel e il nostro livornese.


Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. 
(E. Montale, da: “Ossi di Seppia” - 1925)




Eugenio Montale

La conclusione della poesia di Montale lascia ancora aperta una questione metafisica.

La domanda rivolta al poeta inteso come custode di una verità non è stornata, ma solo trasformata in un lamento corretto però dalla ragione.

E' una consapevolezza fredda quella che ci fa dire che non esistono certezze e che siamo qui per soffrire e per avere desideri che non possiamo mai realizzare.

Se da un lato Montale estingue la figura del poeta vate, inteso come portatore di un qualche paradigma etico o morale, dall’altro lato tale figura viene riabilitata in senso nuovo concedendo al poeta la possibilità di essere portatore di una scoperta (di cui Montale stesso si compiace), la scoperta che l’intima natura del mondo è il suo non senso, e per sostenere ciò la poesia del poeta genovese manifesta un continuo bisogno, come di una droga, dell’oggetto che nega.
E’ come se Montale avesse la consapevolezza che l’inganno della realtà è ciò che nutre il mio stare nel mondo e che senza l’inganno noi non possiamo comunque vivere perché esso stesso la sostanza del reale. 
In Caproni invece non c'è nemmeno questa conclusione.
Egli dissolve ogni funzione del reale e suggerisce che le parole del poeta sono artificio e si impongono esse stesse come inganno facendoci evitare una morte data con l'assunzione di una qualsiasi certezza anche quella di dire che montalianamente il mondo non ha senso.
Si nota nel nostro livornese una tendenza a depistare lo sguardo che vuole dare un preciso nome alle cose anche quando questo nome evoca un vuoto.

A differenza di Montale, egli non critica i suoi predecessori (i poeti "laureati" come li chiamava il caro Eugenio).
Non condanna la poesia in genere, ma va oltre: delimita i confini della poesia come un linguaggio di fuga anzi un linguaggio della fuga. E' solo la fuga infatti che, nella distanza dal linguaggio comune, diviene la fonte di suggestioni e metafore che nel linguaggio comune stesso, come diceva Nietzsche, sono ormai cristallizzate e inflazionate e non sono più "vive".

La mia lettura della lirica di Caproni vuole essere anche uno sguardo trasversale sulla poesia della seconda metà del ‘900 che trova in Caproni una sua notevole espressione.
L'aspetto storico è fondamentale se vogliamo rinvenire il senso delle parole che risuonano in un gioco di inganni, di detti-non detti che ingannevolmente nascondono tutta una concezione della realtà secondo Caproni, concezione che non viene detta esplicitamente ma verso cui il nostro poeta ci guida.

L'elemento che, in una maniera originale, immette Caproni nel firmamento della lirica italiana è una frantumazione del discorso poetico a cui però egli approda dopo un lungo itinerario passando dai Sonetti delle prime opere alle forme più scarne ed essenziali degli ultimi scritti. Questa breve lirica è un esempio stilistico che dimostra come il poeta livornese, dopo il secondo conflitto mondiale, veda nelle forme canoniche della poesia una forma assertiva fin troppo tronfia e sicura di sé, espressione di quella retorica  che non riesce a cortocircuitare con l'esperienza dolorosa della guerra che  viene resa tangibile, attraverso il  puro potere evocativo della parola.
In questo modo Caproni fa sua la lezione dell'Ungaretti del Porto sepolto.Quella di Caproni è una poesia che si interroga su se stessa abbassando le pretese di un certo tipo di poesia razionale tipica dei moderni che, come gia si è detto prima cerca di esaurire il reale nel detto con costruzioni lessicali che affascinano e ipnotizzano.

Detto questo, però, è pur  sempre alla parola di Caproni che bisogna rimettersi per tentare di capire cosa c'è di sublime e di tremendo dietro di essa, cosa essa nasconde, a cosa essa rimanda
Lo stile dell'ultimo Caproni si compone di brevi segni, come piccoli colpi di un pennello impressionista; segni che chiamano il lettore oltre le parole stesse.
E' proprio questo aspetto che, a mio avviso, rende l'opera poetica di Caproni, per diversi aspetti molto più interessante ed esemplare di quella di Montale anche se rispetto ad essa meno solenne.

La lettura costante dell'opera di Caproni ci porta a tradurre questo confinamento del linguaggio poetico proprio come un imbrogliare le carte che vuol dire sovvertire le logiche del mondo.
Far perdere la partita traduce un rovesciare quell'ottica secondo cui nel mondo bisogna vincere sempre sopraffacendo gli altri.
A questo punto mi pongo una domanda un po' diversa: "ingannare" forse non vorrebbe dire paradossalmente aprirsi la strada ad un rapporto paritario e dialogale con gli altri fuori dalle logiche di vittoria? e se c'è questa esigenza, forse non è il compito del poeta soddisfarla?

In questo, secondo me, si concretizza quel rimando all'oltre di cui prima ho parlato; quel ritorno etico all'altro di cui non v'è traccia in questo scritto caproniano (anzi sembra esserci proprio il contrario, come suggerisce il significato comune di inganno), ma a cui Caproni sembra proprio condurci oltre le parole stesse.

2 commenti:

  1. Caproni :Un esistenzialismo che prende coscienza e vive nella Poesia
    Mi piaceva incontrarmi con il mio Oltre
    OLTRE OLTRE

    Oltre le nostre paure
    Ci alimentiamo di futili Ricordi

    Piacevoli pensieri
    si rianimano alla vista di fermi orologi.....


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  2. Stai ucciso e messk in croce

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