Anna Maria Ortese |
Di Carla Cenci
[PRIMA PARTE]
«Deve sempre ritornare il mattino? Mai non finirà la violenza di ciò che è terrestre? [...] Misurato fu alla luce il suo tempo; ma senza tempo e senza spazio è il dominio della notte».1
L'inno di Novalis alla notte, alla vita senza
confini che il giorno inutilmente spinge nei recinti
dell'apollineo, esprime pure senza scarti il valore
simbolico che la cifra notturna progressivamente assume
nell'opera poetica di Anna Maria Ortese, spesso
analogicamente accompagnata dalle altre assai connotate
figure della luna e del mare. «E ovunque
spinga / lo sguardo, luce [...]. Ma non basta / alla mia mente, ché la luce è indizio
/ di vita, lotta e decadenza. E l'urto / sento di folle, e premono sul cuore
/ tutti i verdi pianeti, e sento il forte respiro di quei mari [...] / Limite a questa vita, o Notte, o puro / silenzio!
Cuore / [...] Limite, senza termine! Profonda, / profondissima
culla! Tu che generi, Notte,
quest'alba!»2
Il testo è rappresentativo della tensione
romantica che attraversa tutta la produzione in versi
della Ortese, dove lo stile è spesso prepotentemente
effusivo, mirato all'espansione del sentimento e del patetico,
in alcuni casi iperbolicamente visionario. Anche la
'verticalizzazione' dei contenuti, protesi verso le due
opposte direzioni dell'alto e del basso, dell'aspirazione
trascendente e dello scavo nel profondo dell'esistenza,
procede verso la stessa direzione privilegiando non solo tematiche esistenziali e panico-naturalistiche, ma anche
filosofiche e morali, metafisiche e religiose.
La figura della notte e di quelle affini per valore evocativo introducono quindi ad una prima comprensione dell'universo poetico ortesiano; non a caso i due libri che ne raccolgono l'opera hanno come titolo Il mio paese è la notte (1996)3 e La luna che trascorre (1998, a cura di Giacinto Spagnoletti), ambedue per le edizioni Empiria.
Nell'introduzione al primo libro l'autrice
abbozza insieme un'idea di poetica e un giudizio
critico, secondo cui le poesie ivi contenute, «tranne alcune eccezioni, non furono mai composte,
obbedirono a un impulso espressivo o emotivo. [...] Non furono, di
conseguenza, mai veramente rivedute [...].
Almeno una metà sono di nessun rilievo.
Il motivo per cui le ho conservate tutte, credo stia in questo: che, dal
lontanissimo '32-'34 hanno accompagnato
tutte le stagioni, o quasi, della mia vita, e preceduto la scrittura dei libri in prosa.»4
Parole che chiaramente illustrano lo stile in gran parte
spontaneo, immediato di questa sua produzione, in contrapposizione con la raffinatezza della pagina in prosa. Tuttavia esempi
di maggior controllo formale, specie
nel secondo libro che ha recepito
anche i suggerimenti del critico curatore, non sono del tutto assenti, e in particolare in quei testi che vanno dagli anni Cinquanta in poi. Lo stesso valga
per i contenuti che, da una prediletta
problematica esistenziale,
miticamente proiettata sulle onnipresenti
immagini della natura, si
spostano gradualmente verso quelle situazioni
metafisico-filosofiche e religiose a cui abbiamo accennato.
Giacinto Spagnoletti, nella prefazione a La luna che trascorre, pone giustamente
l'accento non solo sulla natura romantica di questa poesia ma anche
sul rilevante influsso che la personalità e lo stile di
Leopardi hanno avuto su di essa: «Per la Ortese [...]
Leopardi fu un punto di riferimento, che nella sfera dei
suoi sentimenti sempre mossi e turbati da eventi d'imprevedibile
portata, assunse l'autentico carattere di un sostegno
morale e di un nutrimento stilistico.»5 A riprova
di ciò, proprio sull'esempio della canzone leopardiana, si
dipana nel testo che segue la riflessione sulla solitudine,
sull'effimero, sul male esistenziale:
«Primavera ben presto / sarà fra noi; le sere / s'allungheranno tiepide e una grande / luce
vedrai / nelle finestre limpide fiammare. / [...] Questa la primavera? E i miei capelli / già lentamente splendono al soave / tocco
del tempo [...] / Che tempo fu? Che strano / paradiso mai quello? / Ricorderai tu, lenta, /mentre la festa aumenta e
nelle case/scopre la luna il viso alle
fanciulle [...] / Strana bene è la vita, / reprimendo lamenti, / e mirando la
gran festa, dirai.»6
Sono versi degli anni Trenta che, insieme
alla maggioranza dei componimenti coevi, ben documentano la loro ascendenza
leopardiana. Ascendenza che però ci sembra preponderante fino
agli anni Quaranta, perché, torniamo a sottolineare, nelle prove successive è
doveroso registrare un distacco. La stessa autrice
avverte: «A iniziare dalla seconda metà della raccolta il
paesaggio intorno muta: non è più il paese mediterraneo, e le emozioni della giovinezza contano poco, o non ci
sono più. C'è l'ansia di qualche altra verità, c'è la paura, la solitudine e la notte,
soprattutto come ispirazione, tregua, speranza.»7
Per la Ortese quindi il mutamento è
nell'elezione delle immagini deputate a dire il proprio
mondo interiore, ma che noi riconosciamo anche stilisticamente. Pur dentro un orizzonte che resta fino alla fine romantico, l'autrice sposa progressivamente espressioni più composte, abbandona troppo facili automatismi retorici, fino a raggiungere in qualche caso un registro che, per il tono scarno e al contempo teso al profondo, si potrebbe definire sabiano. La poesia «Circo equestre», appartenente ai componimenti degli anni '70 e da cui è tratto il verso eponimo della
prima raccolta, insieme alla ormai intensa connotatività
attribuita alla notte è testimone significativa di tale mutamento: «Il mio
paese è la notte. / Del giorno so appena /
un rosso dolore che evade / da muri di pena. // Datemi scale sottili / che al mio paese riportino, / oscillando dolcemente. // Circo equestre il mondo, /
baraccone di zingari, / d'ombre incendio e di maschere, / mai s'addorme. »8
Analogamente un altro testo, posto nella produzione del periodo '53-'60, documenta in
parte il distacco di cui parliamo, dove
non solo la metrica della canzone leopardiana fa spazio al
verso libero, ma subentrano anche termini attinenti alla
sfera del quotidiano: «Dov'è che ho ascoltato di notte il grido del
lattaio, /ho sentito passi sul selciato di un buon uomo, / e il sole era ancora
nei pozzi delle montagne, / attingendo l'acqua freschissima delle tenebre? Rosso giallo giallo rosso come
un'arancia [...]»9
Molti dei componimenti degli anni Trenta
fecero inizialmente parte del tessuto narrativo de Il Porto di Toledo - Ricordi della vita irreale, uscito nel 1975 dopo una lunga e furiosa
elaborazione. «Sono figlia di nessuno»10:
questo l'esordio di Damasa, la narratrice-alter ego del libro, incipit sulla traccia
non tanto di una condizione di orfanezza (Damasa
ha padre e madre), quanto di sradicamento, emblematico di tutta tana condizione umana epocale. Nel suo labirintico e controverso itinerario il testo
dipana il motivo dell'illusorietà
dell'esistenza e del tempo e l'inconoscibilità
del loro significato ultimo; all'interno di una dialettica sogno-realtà, già da tempo assai cara all'autrice, nell'irrealtà del reale sono veri solo
il dolore e il desiderio di salvezza,
che esprime il sogno. Pure, nell'ondosità
dell'essere, figurata costantemente dal paesaggio delle marine, del porto, del vento e della pioggia, emergono a tratti presenze di luce, spiragli di
bellezza, speranze; che però subito
riaffondano nell'oscurità del mare,
senza lasciare in superficie alcuna significazione, denotando il tragico enigma che sortisce per la
Ortese la vita umana: intuire
l'esistenza di un significato originale dell'essere, vederne le tracce e non poterlo conoscere.
Qui si palesa inoltre l'altra accezione
ortesiana della luce, priva del carattere oppositivo alla notte che abbiamo riscontrato,
con la sua connotazione di limite e misurabilità
razionale, nei versi citati in apertura. Invece, come l'alba, è
tutt'altro che estranea allo sfondo notturno costituito
dal mare e dagli altri elementi 'oscuri' (il vento, la pioggia, il groviglio fatiscente delle
costruzioni portuali), ne è piuttosto figlia, messaggera del mistero originale che a lui perennemente ritorna.
Squarcio di luce e pratica del sogno, reale nella realtà irreale, è anche l'arte letteraria, in cui hanno un
ruolo non secondario le prove poetiche
o «espressioni ritmate» secondo
l'accezione prescelta da Damasa-Ortese: «In
esse non vi è nulla che non si
potrebbe dire in righe continuate, o anche
in margine a un libro di conti; ma esse, per me, costituiscono, col loro
malinconico vuoto, ciò che pochi diruti
piloni sono per un ponte, su acque abbandonate. E su quel ponte di nulla io devo ora passare, se voglio ritornare [...] in quel tempo dove giace la
mia Toledo».11
Evidente la funzione memoriale del poetico
(parallelamente ricordata dalla Ortese nella citata
prefazione alla prima raccolta), il quale è però anche occasione di consolazione e felice libertà: «Queste espressività, e solo queste espressività, mi calmavano. Dicendo
la pena, la pena se ne andava. Perciò sentivo lo scrivere come una
benedizione. [...] Ah, era bello!
Non solo la disperazione se ne andava,
ma io ero un'altra, e una veloce libertà mi sollevava. E riguardo a questa libertà tanto amata, [...] da apparire pavimento stesso e tetto della vita, e a
questo espressivo che dentro tale
libertà camminava [...] sentivo che era in essi qualcosa di fondamentale, di
immutabile, quasi non fosse l'eterno
essere a cui tutti ci si conduce, che
un esprimersi eterno, un liberamente camminare eterno».12
L'esercizio della creatività, in
questo caso letteraria, è quindi
propedeutico, come del resto ogni altra fruizione della bellezza, al destarsi repentino nell'uomo del senso dell'immortalità, e della libertà che ne consegue. Ma la Ortese, pur
consapevole di ciò, non cede al facile compiacimento estetico,
dimostrando un singolare attaccamento al dettato
morale della condivisione del dolore, profondamente
convinta che «non vi è espressivo che salvi; e sia uomo o donna, giovane o
vecchio, [...] devono patire l'universale umile patire, rendendosi essenzialmente amici del vivente, e sua
protezione. Solo da ciò [...] potrà nascere [...] un nuovo vero espressivo.»13
Se l'arte quindi è fonte di gioia, è squarcio di luce nel fitto dell'esistenza, non però è sufficiente a salvare l'umano nella sua integrità e lascia senza risposta il grido della sofferenza universale. Questo grido è per l'autrice così prioritario che un'arte incapace di tenerne conto, illusa di preservare autonomamente la propria significatività, non può che degenerare e avvizzire. [Continua - Vai alla seconda parte]
Note
Novalis, Inni alla notte - Canti spirituali, Milano, Mondadori, 1982, p.
71.
2 «Terra oltre il mare» in: A. M.
Ortese, Il mio paese è la notte, Roma,
Empiria, 1996, p. 163.
3 Il titolo della silloge riprende il verso
iniziale di una poesia degli anni '70, che dà anche il nome
alla vasta sezione interna comprendente i testi dal 1953 in
poi. La raccolta ha vinto nel 1997 il Premio Carlo Betocchi.
4 A. M. Ortese, Il mio paese..., cit. p. 5.
5 G. Spagnoletti, Introduzione a: A. M. Ortese, La luna che trascorre, Roma, Empiria, 1998, p. 7.
6 «Primavera ben presto» in: A. M. Ortese, La lima..., cit., pp. 54-5.
7 A. M. Ortese, Il mio paese…, cit., p. 5.
5 «Circo equestre», ivi, p.
157.
9 «E mi alzai
ridendo», ivi, p. 112.
10 A. M. Ortese, Il Porto di Toledo, Milano, Rizzoli, 1975,
P. 9.
11 Ivi, p. 14.
12 Ivi, p. 22
13Ivi, p. 20.
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