sabato 10 settembre 2016

Deborah Žerovnik: la parola estranea che salva

Di Giuseppe Cerbino

Ciò che mi sorprende in Deborah Žerovnik (Pola, 1968) è la sua origine serbocroata che la rende estranea alla lingua italiana ma facendo di questa estraneità non un ostacolo ma una risorsa attraverso la quale la Žerovnik si muove come un bambino in una lallazione primordiale attraverso cui la poetessa assume il peso di tutte le risposte che la “grammatica” è in grado di offrire alla sua domanda di drammatiche inquietudini. Da questa esplorazione rabdomantica la Žerovnik scopre sempre nuove combinazioni di senso che rendono possibile l'apertura di varchi nella sua vita di sofferenze. Una vita che la schiaccia e che tuttavia non la sconfigge mai. Il lettore vede nel sangue versato sempre una occasione di gratifica e di nobiltà di una esistenza, la cui esigenza sacrale non può essere mai rifiutata. C'è un ordine, un codice, in questa poesia in cui il dramma e il dolore sono delle necessità immolate al verso.
La sintassi ordinaria fiorisce di nuove costruzioni, insolite, sorprendenti, elaborate con una naturalità che trova riscontro in quei poeti di “confine” come Zeichen, Dapunt, Capello... in cui la lingua viene scardinata, decostruita per ripescare dall'inconscio le nuove psicosi che pongono in essere il disagio che sancisce in maniera inesorabile una sorta di rassegnazione quasi masochistica in cui la sofferenza funge da stupefacente suggerendo sempre un percorso verso la bellezza; la quale inevitabilmente diventa, in questa poesia, una priorità urgente, l'esito fondante che sta alla base della più subdola e devastante delle agonie. 
La poesia di Debora Žerovnik è colta senza mostrare le origini di questa cultura denotando allo stesso tempo una sapienza lessicale potentissima a cui è affidata una narrazione di vita quotidiana; la lingua è senza controllo e tocca il sublime con la stessa arguzia lessicale con cui tocca il disdicevole.

***
È quando mi sento sola
che faccio la sciocca con i ricordi
altri non ne ho, solo quelli nostri
così sembra che non so stare senza di te
in verità è che senza te
non so cosa farmene di me
in quella distesa infinita
di lunghe ore fuori mano
dove parole pronunciate sparse
sciamano intorno alla lampada
come falene all'inizio di un momento
di pioggia eccessiva
e lo sbattere d'ali insignificante
***
Mi secca sapere che esisti da ieri
io, nata questa mattina per dispetto
sono irritante quando ti amavo.
Perché la faccia non è il volto
di quei giorni che non sono giorni,
ma urlanti trincee di profonde rughe
e rabbia in giro per tutta la notte
fino a quando le ustioni nude
e gli occhi iniziano a vedere
ciò che non deve durare;
come il proiettile che a colpirti non senti
perché la morte non fa male
***
Solo gocce di tempo
in antichi disordini,
appena il crepuscolo s’infittisce
calano ammassi stellari
mentre le finestre si addormentano.
Recitando un po’ di felicità
con sorrisi bugiardi
scorrono menzogne
di quel tempo trascorso.
Non è il primo mostro
che minaccia la mia bocca
ma la paura
non è il belletto giusto
per le mie labbra;
“pensi veramente
che sia il fulmine
a scegliere la quercia?
o è la quercia
che si impone al fulmine?”
per pensarlo,
basta dire che dio sappia
quanto
è intelligente il destino,
senza voler cambiare il mondo
perché sa essere
buono anche questo,
e poi le distanze
vanno condivise
e per trovare te e me,
ritorno, pensando
alla gente che urla:
noi, baia senza porto,
soli
e un cuscino per due.
***
Tutto, dentro me, continua a fluire
riversandomi addosso
l'età del tempo da dragare
e il sopravvivere
quei figli bellissimi
non venuti mai a galla.
Ma è sopra l'acqua
che svolazzano
angeli e moscerini.
Ho visto pietre,
polvere, le radici
ed ho partorito
cespugli e vento.
Con i piedi prego
e risorgo squama di pesce,
occhi e detriti sulla costa.
Il grembo mi trema
al tintinnio di ciottoli,
vi cullo ai canti di onda
e ancora, in fondo, scorro.
***
M'ero fermata dove non serve.
Avrei voluto ogni giorno
il mio pane e il sale offrirti
e le mani di nuovo
prendendo un paio di passi tuoi
per quel che m'attende
nello sbattere la porta
ma le strade sono piene
di tracciati già passati.
Avrei saputo, sì
da sotto il ponte
farmi vecchio secchio di latta
a raccoglier la pioggia
per annaffiare l'erba
ché sia il letto più morbido.
Avrei potuto, ma poi di nuovo
due taglie troppo grandi di scarpe
e una panca con la capra sotto.

Nessun commento:

Posta un commento