Michele Caccamo |
Dice il filosofo Paul Ricoeur che il lettore ridefinisce il senso di un libro rispetto all'intenzione di chi scrive. Ogni lettura ci chiama sempre dai nostri vissuti, il che significa che ci chiama dalle nostre conoscenze, dalla nostra cultura, dalla nostra sensibilità per arrichire il senso di ciò che andiamo a leggere. Esporrò alcune suggestioni emerse dalla lettura di “La profezia delle triglie”(David and Mathaus editore) senza per questo pretendere di esaurirne il senso, sapendo anzi che questo romanzo rimane aperto nell'accezione di Roland Barthes e Umberto Eco.
C'è una parola chiave che regge tutta la narrazione del romanzo di Michele Caccamo e Luisella Pescatori, una parola che non è presente nel romanzo stesso ma è sussurrata nel respiro orientale e che noi occidentali abbiamo bisogno di evocare per comprendere non solo l'ossatura di certi lavori letterari come questo ma anche il “sottobosco” semantico che fa da collante imprescindibile a questi due grandi orizzonti. La parola è “dignità”, una parola che riconosce un valore intrinseco in ogni persona e per tale motivo, nel suo antico e dimenticato significato non ha bisogno di essere dimostrato e verificato poiché proviene dall'essenza stessa della cosa. Qualcosa che è intrinseco è evidente, incontrovertibile e in tal senso non è un caso che il corrispettivo greco della parola latina dignitas è axios da cui deriva il termine assioma: come si sa l'assiona è una affermazione che sta alla base di ogni dimostrazione ma essa non può essere dimostrata a sua volta. Ecco! L'uomo come tale è axios, emissario di se stesso; del suo stesso valore che mostra ma che non ha bisogno di di-mostrare.
Il protagonista de“La profezia delle triglie” è esposto all'inferno delle continue dimostrazioni e verifiche del suo valore: soldi, documenti, lasciapassare, prove processuali, capi d'accusa. E' lo stesso inferno che porta alla tragedia dei corpi che galleggiano a mare aperto, quello stesso mare che il poeta Caccamo vorrebbe che venisse spaziato “a norma di Dio” ma che invece accoglie solo i corpi frutto della tragedia delle scelte umane anche di coloro che sono morti in quel mare, frutto delle leggi del mondo; il mondo che il filosofo Franz Rosenzweig vorrebbe come il logos non concluso della creazione ma che pure ci sforziamo di abitare, alienati come siamo dal logos divino in quanto abbiamo distolto lo sguardo, deviato l'orecchio; nella traccia deposta nel romanzo dei due scrittori quello divino sembrerebbe essere l'unico logos, in questa vicenda di solitudini, che può farci intravvedere la gloria autentica dell'uomo. Non ci sono altre possibilità; questo a prescindere dalla fede di ciascuno. Non è possibile prescindere dal mito religioso neanche per un ateo, perchè l'ateo non crede che il mondo sia divino ma non può pensare che il mito divino non abbia valore simbolico per capire l'uomo. E' da sciocchi o da scienziati senza valore. Il vangelo apocrifo di Filippo dice che «La verità non è venuta nuda al mondo, ma è venuta in simboli ed immagini.»
Il protagonista de“La profezia delle triglie” è esposto all'inferno delle continue dimostrazioni e verifiche del suo valore: soldi, documenti, lasciapassare, prove processuali, capi d'accusa. E' lo stesso inferno che porta alla tragedia dei corpi che galleggiano a mare aperto, quello stesso mare che il poeta Caccamo vorrebbe che venisse spaziato “a norma di Dio” ma che invece accoglie solo i corpi frutto della tragedia delle scelte umane anche di coloro che sono morti in quel mare, frutto delle leggi del mondo; il mondo che il filosofo Franz Rosenzweig vorrebbe come il logos non concluso della creazione ma che pure ci sforziamo di abitare, alienati come siamo dal logos divino in quanto abbiamo distolto lo sguardo, deviato l'orecchio; nella traccia deposta nel romanzo dei due scrittori quello divino sembrerebbe essere l'unico logos, in questa vicenda di solitudini, che può farci intravvedere la gloria autentica dell'uomo. Non ci sono altre possibilità; questo a prescindere dalla fede di ciascuno. Non è possibile prescindere dal mito religioso neanche per un ateo, perchè l'ateo non crede che il mondo sia divino ma non può pensare che il mito divino non abbia valore simbolico per capire l'uomo. E' da sciocchi o da scienziati senza valore. Il vangelo apocrifo di Filippo dice che «La verità non è venuta nuda al mondo, ma è venuta in simboli ed immagini.»
l mito religioso racconta l'uomo, non è possibile parlare dell'uomo, della sua essenza escludendo questo mito. Se esponiamo in controluce tutte le parole di questo magnetico romanzo intravvediamo in filigrana, la tessitura che ne regge il senso profondo: l'esodo che ogni religione racconta nei suoi miti, l'esodo verso la “grazia” verso la felicità. Felicità che da sempre l'uomo moderno si persuade di ottenere con la libertà, quindi attraverso se stesso. Gli esistenzialisti ne hanno in qualche modo scoperto l'inganno e ci dicono che l'uomo è condannato alla libertà, esito paradossale che però svela l'inconsistenza di questo concetto tutto moderno inteso come “passione inutile” per dirla con Sartre, poiché la libertà non è in grado di farsi bussola per una stabilità di valori in un mondo connotato dalla morte di Dio. L'uomo vive nella desertificazione di principi imperituri che da sempre, invece, scrivono nel firmamento, un'alleanza tra l'angelo e l'uomo ma da cui l'uomo stesso ha pensato di affrancarsi a causa della sua tracotanza, di ciò che i greci chiamano Hybris.
Luisella Pescatori |
Nella dialettica staffilante di tipo pascaliano tra dominati e prevaricatori, tra giudici e colpevoli veri o presunti si dischiude la vicenda di Ibrahim che assume il ruolo di un anti-Caronte il quale invece di traghettare le anime verso l'ade, le traghetta verso una terra promessa, una attesa di felicità che liberi gli uomini dal giogo delle dittature che soffocano. Ed è in questa tensione, in questo slancio di giustizia, che la legge degli uomini, del sistema, vede in lui uno scafista parificato a tutti gli altri e non sente invece il respiro di Dio che alimenta la incontrovertibile dignità di Ibrahim e la dignità di coloro che vuole portare verso una nuova luce. Luce è termine nevralgico nell'islamismo; in questo termine si gioca tutta la differenza con l'ebraismo e soprattutto il Cristianesimo. Allah non è il salvatore colui che strappa l'uomo dal rischio di una caduta, Allah è il misericordioso, alcuni studiosi dicono “Benefico”, colui che soccorre l'uomo nel pericolo ma non lo sottrae da esso, così come recita il versetto 66 della XV Sura del Corano che dice che Dio immette la barca in mare affinchè gli uomini vedano la sua misericordia trasformando l'evento in occasione di incontro con Dio. Ogni evento nell'islamismo è appello a Dio affinché benedica l'evento senza sottrarlo all'uomo in quanto ormai corrotto come invece accade nella visione di certo ebraismo come quello di Rosenweig. Il mondo è luogo di riscatto dell'apparire del Bene sommo. Questo aspetto è fondamentale nella struttura del romanzo in cui i due autori rileggono una vicenda piuttosto comune alla luce della dignità recuperata nel rapporto e nell'alleanza secolare con Allah che Ibrahim ripete nella sua storia. Egli ribadisce la sua alleanza con Dio come nel racconto dei vari miti e del Corano, perché questa alleanza può fungere non solo da riparo dai vari pericoli ma riconosce nell'uomo la vera testimonianza della potenza di Dio, in altre parole riconosce il valore supremo dell'uomo che diventa l'apparire della verità. Ed egli stesso è la verità di Dio, affrancato così dalle brutture del mondo. Dio lo conduce verso una nuova terra di felicità e godimento.
Senza entrare nei dettagli diciamo subito che la radice indoeuropea presente nella parola Dio Theos è la stessa radice di parole latine come festum felix da cui viene felicità, luogo della festa. Esaltazione,giubilo. Ecco l'alleanza con Dio, con Allah garantisce il giubilo, la festa a cui ogni uomo è chiamato. Io leggo nella vicenda di Ibrahim questa tensione verso la felicità che è la scrittura segreta taciuta dell'islamismo, lontano dalla lettura banale e becera a cui siamo abituati a in questi ultimi tempi. Il romanzo di Caccamo e Pescatori consegna al lettore un affresco autentico della cultura islamica innervato nella storia personale di Ibrahim senza scenari di morte pur con i morti; ma i morti sono quelli della legge degli uomini, dei divieti, dei regolamenti, dei respingimenti della non accoglienza il luogo dove Dio muore, o come direbbe Marco Maria Olivetti,il luogo dove Dio piange le ennesime crocifissioni.
Senza entrare nei dettagli diciamo subito che la radice indoeuropea presente nella parola Dio Theos è la stessa radice di parole latine come festum felix da cui viene felicità, luogo della festa. Esaltazione,giubilo. Ecco l'alleanza con Dio, con Allah garantisce il giubilo, la festa a cui ogni uomo è chiamato. Io leggo nella vicenda di Ibrahim questa tensione verso la felicità che è la scrittura segreta taciuta dell'islamismo, lontano dalla lettura banale e becera a cui siamo abituati a in questi ultimi tempi. Il romanzo di Caccamo e Pescatori consegna al lettore un affresco autentico della cultura islamica innervato nella storia personale di Ibrahim senza scenari di morte pur con i morti; ma i morti sono quelli della legge degli uomini, dei divieti, dei regolamenti, dei respingimenti della non accoglienza il luogo dove Dio muore, o come direbbe Marco Maria Olivetti,il luogo dove Dio piange le ennesime crocifissioni.
Il romanzo ,pur nella sua relativa brevità, è molto denso, ricco di rimandi al Corano e alle fiabe della tradizione egiziana. I racconti mitici si intersecano con la vicenda reale del protagonista creando un chiasmo coerente con essa e fendono come piccole crepe una biografia all'apparenza banale, conferendole una forma sempre coinvolgente in cui il lettore non può fare a meno di sentirsi sodale perché intravvede lo stesso destino che lo apparenta a Ibrahim nello stesso percorso di umanità. La fiaba come dice la post fazione è la luce che orienta la vita dei personaggi del romanzo. E' una specie di balsamo che bagna i corpi per riproporli nel profumo di Dio, e solo così, noi abituati alle cronache giornalistiche, li ricomprendiamo nella dignità perduta, perduta nelle leggi nelle cupidigie degli uomini. A differenza di quanto succede, ad esempio, nei lavori della poetessa Antonietta Dell'Arte dove la favola denuncia la sua mistificazione, in questo lavoro di Caccamo e Pescatori la favola rivendica la sua riserva di senso di una umanità nobilitata dal simbolo. Usciamo dai clichè giornalistici dalla mera cronaca che arricchisce gli scoop ma impoverisce le storie degli uomini, questi uomini alla ricerca di una terra, di una felicità, di Dio.
Chi è a digiuno di conoscenze circa l'islamismo troverà in questo romanzo degli stimoli molto utili che aiutano soprattutto a liberarsi di certi pregiudizi non solo fastidiosi ma anche pericolosi. E questo è piuttosto sorprendente se teniamo in considerazione che il romanzo è stato scritto da due occidentali.
Chi è a digiuno di conoscenze circa l'islamismo troverà in questo romanzo degli stimoli molto utili che aiutano soprattutto a liberarsi di certi pregiudizi non solo fastidiosi ma anche pericolosi. E questo è piuttosto sorprendente se teniamo in considerazione che il romanzo è stato scritto da due occidentali.
Questo romanzo si innerva coerentemente con tutti gli altri lavori di Michele Caccamo in quanto evidenzia il gusto per il “frammento” poetico e la brillante ricerca di immagini e metafore che fanno da cifra al suo stile alla sua capacità visionaria di intercettare simboli nella didascalia di ogni storia. Il poeta fa da valore aggiunto al romanziere, e come nella tradizione degli antichi poeti arabi la forza delle suggestioni anche impreviste e lontane creano miracolosi cortocircuiti semantici che aiutano il lettore a esplorare le vite raccontate.
Michele Caccamo è un "esiliato moderno" che crede ancora nella capacità apotropaica della parola, nel suo combinarsi esorcistico che ci libera dal male che assorbiamo in dosi omeopatiche senza rendercene più conto. E' la poesia di un ribelle che vuole emergere come un giusto, toccato da quella giustizia divina a cui questo mondo è diventato se non cieco quanto meno orbo: la scorge, la incontra, ma non la riconosce.
Dice Roberto Cafiri che in una epoca dominata dalla morte di Dio il poeta è l'unico a portarne il lutto. Il poeta piange la morte di Dio di cui cerca di evocare almeno il nome. In Caccamo sembra sussistere, invece, la resistenza alla rassegnazione di questa morte, in quanto da buon poeta “mistico” sa che Dio per definizione non può mai morire; secondo Emanuele Severino, Dio è l'eterno salvo dal nulla. In Caccamo Dio non è l'altro in senso lacaniano o Levinasiano attraverso cui l'io assume la sua costituzione ma è la “norma” che regge l'intelligibilità del mondo in un senso più vicino a Spinoza. Ma c'è di più. Dio non muore grazie a una testimonianza umana che tenacemente,testardamente, pronuncia la sua irrinunciabile liturgia in cui divino e umano sembrano quasi incontrarsi affinché l'uno non possa fare a meno dell'altro in una sinergia che schiude ogni evento del mondo. In questo chiasmo tra lo slancio e la catabasi, Caccamo sembra intravvedere uno spiraglio di riscatto che non è né divino né umano ma che non potrà essere senza l'uno e senza l'altro.
Questo romanzo scritto insieme a Luisella Pescatori è l'ennesima testimonianza dell'attenzione del poeta calabrese alle altre culture religiose in particolare all'islamismo, tale attenzione ripete quella più alta più metafisica nei confronti dell'altro, in una accoglienza totale che solo la letteratura, certa letteratura come questa, può tradurre in impegno concreto che fa di Michele Caccamo un profondo e potente poeta "civile"
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