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Anna Maria Ortese |
Di Carla Cenci
[PRIMA PARTE]
«Deve sempre ritornare il mattino?
Mai non finirà la violenza di ciò che è terrestre? [...] Misurato fu alla luce il suo tempo; ma senza tempo e senza
spazio è il dominio della notte».1
L'inno di Novalis alla notte, alla vita senza
confini che il giorno inutilmente spinge nei recinti
dell'apollineo, esprime pure senza scarti il valore
simbolico che la cifra notturna progressivamente assume
nell'opera poetica di Anna Maria Ortese, spesso
analogicamente accompagnata dalle altre assai connotate
figure della luna e del mare. «E ovunque
spinga / lo sguardo, luce [...]. Ma non basta / alla mia mente, ché la luce è indizio
/ di vita, lotta e decadenza. E l'urto / sento di folle, e premono sul cuore
/ tutti i verdi pianeti, e sento il forte respiro di quei mari [...] / Limite a questa vita, o Notte, o puro / silenzio!
Cuore / [...] Limite, senza termine! Profonda, / profondissima
culla! Tu che generi, Notte,
quest'alba!»2
Il testo è rappresentativo della tensione
romantica che attraversa tutta la produzione in versi
della Ortese, dove lo stile è spesso prepotentemente
effusivo, mirato all'espansione del sentimento e del patetico,
in alcuni casi iperbolicamente visionario. Anche la
'verticalizzazione' dei contenuti, protesi verso le due
opposte direzioni dell'alto e del basso, dell'aspirazione
trascendente e dello scavo nel profondo dell'esistenza,
procede verso la stessa direzione privilegiando non solo tematiche esistenziali e panico-naturalistiche, ma anche
filosofiche e morali, metafisiche e religiose.